mercoledì 20 luglio 2016

STATUTO @ THIENE SUMMER GARDEN - 19/07/2016


Gli Statuto sono un gruppo unico sulla scena italiana: tra alti e bassi è dal 1983 che portano in giro il loro modo d'essere.
Un gruppo unico perché unica è la loro storia: ragazzi che si trovano nella piazza di una metropoli (Torino), appartenenti ad una sottocultura (Mods) che decidono di formare un gruppo.
Sono praticamente gli unici a certi livelli che non si vergognano a parlare di calcio come piace a me nei loro testi.
Altra considerazione che mi frullava in testa in questi giorni: pur essendo un gruppo emerso negli anni '80, non sono mai stati relegati mentalmente a quella fascia storico temporale come, ad esempio, possono essere i Diaframma (che comunque adoro); né loro hanno mai dato segni di nostalgia in questo senso, dimostrando che la vita va vissuta adesso.
Poi a me personalmente l'ultimo album non mi piace un granchè: c'è un concept che non mi convince, anche se ogni tanto spero di cambiare idea e di farmelo piacere maggiormente come i loro precedenti dischi.
A Thiene hanno fatto canzoni prese da tutta la loro carriera. Forse con i fiati erano meglio rispetto alla formazione a quattro di adesso, si potevano concedere soluzioni un attimo più raffinate e complete.
Adesso lo ska è bello rude, però i pezzi power pop/beat filano che sono un piacere.
Oskar è una sagoma, fa le sue movenze che strappano più di un sorriso.
Insomma, per me gli Statuto hanno il sapore delle cose buone, genuine, italiane (stesso effetto me lo provocano i Diaframma).
All'inizio hanno suonato praticamente per me e la mia ragazza che ci siamo posizionati giusti dritti al palco, poi è arrivata un po' di gente e alla fine, quasi senza che me accorgessi, alla mia destra era presente un orda di barbari (da me soprannominati "Huligani Dangereux") in ciabatte e petto nudo che cantava, ballava, lanciava birra in aria, cantava canzoni da stadio e si divertiva.
Bello così!

lunedì 2 maggio 2016

BUZZCOCKS - NEW AGE - RONCADE (TV) - 29/04/2016



Settimana strana, raffreddore, malesseri di stagione, mezza febbre: io, comunque, è già dal lunedì che ho in testa il concerto dei Buzzcocks al New Age.
Mi riascolto il loro ultimo album, l'ottimo "The Way" del 2014, e penso che ultimamente sto prendendo una bella media: terza volta che li vedo negli ultimi quattro anni. Beh, a dire il vero mi piacerebbe vederli anche ogni sei mesi, però tocca accontentarsi di quello che passa il convento.
Mi bevo una bella bionda media col mio socio e quando i Buzzcocks salgono sul palco sono contento come un bambino.
Partono con "Boredom", caratterizzata dal suo classico assolino stupido e alla fine ci attaccano subito il basso di "Fast Cars", primo pezzo di quel grande album che è "Another Music in a Different Kitchen".
Io sono davanti a Steve Diggle, il mitico Steve che non sta fermo un attimo e sembra un ragazzino di sessant'anni con una sacco di vitalità da spendere, mentre Pete Shelley sembra un attimo più sulle sue.
Fanno "I Don't Mind" e tutti a fare il coro e poi sorprendono inserendo "Totally from the Heart" da "All Set" del 1996, quasi un pezzo di culto.
La lunga suite kraut di "Moving Away from the Pulsebeat" è un mantra circolare che non ti fa stare fermo un secondo, sentita adesso sembra quasi un anticipazione danzereccia di quella che diventerà Manchester alla fine degli '80 con l'Hacienda e l'indie dance.
Mi salgono dei flash, tipo il racconto intitolato "Pete Shelley" su una raccolta curata da Nick Hornby, che parla di Inghilterra fine '70, adolescenti con gli ormoni in esplosione che ascoltano i Buzzcocks e gli Adverts, e Pete Shelley ora è proprio davanti a me e questi sono i Buzzcocks.
"Promises" è una delle mie canzoni preferite di sempre, il testo, i coretti; "Noise Annoys" mi ricorda l'autunno delle superiori, quando tornavo da scuola, mettevo su "Singles Going Steady" e mi stendevo sul letto ad ascoltarlo, ottobre/novembre.
Insomma, i Buzzcocks sono un pezzo di cuore, ma questo l'ho sempre saputo. Per me hanno sempre rappresentato qualcosa di più di una semplice band di cui ti piacciono le canzoni: il look, i testi, le melodie, le grafiche, tutto eccezionale.
Chiudono con la bomba punk '76 "Time's Up", prima di rientrare e stendere tutti con "What Do I Get/Orgasm Addict/Ever Fallen in Love/Harmony in My Head".
Alla fine penso che mi piacerebbe andare anche il giorno dopo a Cervia e poi continuare a seguirli lungo tutto il tour europeo: torno a casa e mi addormento col sorriso.

venerdì 1 aprile 2016

PUNKY REGGAE PARTY

La punky reggae connection fu una questione fondamentalmente londinese: fu possibile in quanto era ben presente e radicata in città una comunità giamaicana sin dai primi anni '50, principalmente in quartieri come Brixton e Ladbrooke Grove.
La musica giamaicana aveva già attecchito in Inghilterra a partire dagli anni '60, con Mods e Skinheads inglesi che fecero di ska, rocksteady e original reggae la colonna sonora del loro total look.
Parliamo quindi di una situazione giovanile generalmente ben ricettiva verso i suoni dell'isola, e così fu anche nella primissima seconda metà degli anni '70.
Dalla Giamaica usciva quello che verrà definito Roots Reggae, caratterizzato da altre tematiche rispetto allo status quo di ska/rocksteady/reggae: si inizia a parlare di Jah, inizia l'epopea Rastafariana, si parla di situazione sociale, insomma una musica che va a configurarsi come "militante".
Un po' quello che i ragazzi bianchi stanno facendo a modo loro a Londra con i primi vagiti punk: i prime movers come Clash e Pistols è gente che la materia giamaicana la conosce bene, per averla imparata in strada.
Don Letts, dj anglo giamaicano, suona dischi dub e reggae tra un set punk e l'altro al Roxy Club di Covent Garden: "Non c'erano dischi punk nostrani da metter sul piatto, perchè dovevano ancora essere incisi, così mettevo dub reggae intervellato ogni tanto da MC5, Stooges, New York Dolls e Ramones".
Un buon esempio dei pezzi suonati da Don Letts in quelle storiche serate si possono ritrovare nella compilation da lui curata, "Dread meets Punk Rockers Uptown".
Intanto arriva il fatidico 1977: nel primo album i Clash rifanno "Police & Thieves" di Junior Murvin: la suonano a modo loro, più rude ed elettrica rispetto alla contemporanea versione originale.
E' il primo esempio musicale di punk reggae.
Bob Marley nel 1977 si trova in città e scrive "Punky Reggae Party", lato b di Jamming, gran pezzo celebrativo di quello che sta accadendo:
"Wailers still be there,
The Jam, The Damned, The Clash
Wailers still be there
Dr. Feelgood too, ooh"
In un intervista dice: "E' diverso ma mi piace. I punk sono i reietti della società. Così come i rasta. Anche loro difendono ciò che noi difendiamo".
L'esempio dei Clash viene seguito in ambito punk qualche mese dopo dai Ruts, i quali registrarono un paio di pezzi reggae micidiali e dagli Stiff Little Fingers di "Johnny Was".
I Pil di John Lydon furono pesantemente influenzati dal dub e tracce di reggae si possono rintracciare anche nella prima fresca new wave di Elvis Costello, Joe Jackson e Police.
Fu una cosa praticamente univoca, nel senso che gli artisti bianchi britannici ne furono influenzati, i gruppi reggae inglesi invece non particolarmente (parlo sempre a livello di suono).
Poi arrivo la Two Tone, con il recupero sonoro e stilistico dello ska, ma quella è un altra storia.
Una "Punky Reggae Compilation" io la farei così:
- Clash - Police & Thieves
- Clash - White Man in Hammersmith
- Clash - Guns of Brixton
- Stranglers - Peaches
- Stiff Little Fingers - Johhny Was
- Ruts - Jah War
- Members - Romance
- Joe Jackson - Sunday papers
- Elvis Costello - Watching the Detectives
 - Police - Roxanne
Vi consiglio il bel libro di Don Letts "Punk e Dread", la compilation da lui curata di cui sopra e "Punky Reggae Selecta".


domenica 6 marzo 2016

JOE JACKSON @ TEATRO CORSO - MESTRE - 04/03/2016



Nel mio immaginario la figura di Joe Jackson è legata a doppio filo con quella di Pier Vittorio Tondelli: lo scrittore emiliano, infatti, ne scrisse sia su "Rimini" che su "Camere Separate", sul primo addirittura citando una sua frase in apertura di libro.
Erano gli anni '80, e l'artista inglese era sicuramente una figura di spicco nel panorama musicale di allora, forte di diversi ottimi album disclocati nel periodo 1979/1986.
Fa ora tappa a Mestre, in un Teatro Corso gremito, per presentare la sua ultima fatica, "Fast Forward", eccellente disco che sembra restituire almeno un pò della magia dei tempi d'oro.
La primissima parte di concerto lo vede impegnato a rileggere, in solitaria alla tastiera, pagine importanti come "It's different for girls", "Hometown", "Be my number two", oltre alla titletrack "Fast Forward"; a partire dalla classica "Is she really going out with him?" viene raggiunto sul palco dai compagni di band (chitarra/basso/batteria) e insieme iniziano a macinare una scaletta che non fa prigionieri.
Ci sono i sapori funky 80's di "You can't get what you want", il reggae punk '79 di "Sunday papers", la pulizia pop rock di "Junkie diva" e "A little smile", la New York connection di "Another World", il tutto eseguito con una perfezione stilistica da campioni, con il piano/tastiera che conferisce una certa raffinatezza globale all'insieme.
Anche a livello estetico il quartetto è un bel vedere: vestìti bene, sobri, zero pacchianate, giusto una sciarpa biancoblu del Portsmouth annodata alla tastiera che fà molto passione working class inglese.
Graham Maby, il bassista storico di Jackson con lui dai primissimi tempi, regge la scena in maniera impeccabile sia a livello ritmico che visivo.
Molto divertenti inoltre i siparietti che Joe Jackson concede tra i brani, qualche numero di caro vecchio british humour che me lo rendono affettivamente simpatico.
C'è spazio anche per un omaggio a David Bowie con "Scary Monsters (and super creeps)": noto anche la scritta "Bowie" fatta sul nastro adesivo su un cassone nelle retrovie del palco.
L'unico piccolo neo, se vogliamo, è una rilettura lenta e un pò spenta di "Steppin' Out", praticamente il suo brano più famoso direttamente dal capolavoro "Night & Day" del 1982: l'esecuzione original penso avrebbe incontrato maggiormente i consensi del pubblico, ma tutto sommato è solo un piccolo cavillo in una riuscitissima serata mestrina di inizio marzo 2016.

giovedì 11 febbraio 2016

INTERVISTA A PETE SHELLEY



I Buzzcocks si sono riformati nel 1989, dopo otto anni: non riuscivi a stare lontano dal gruppo?

Le canzoni che abbiamo registrato quand'eravamo giovani significano molto per alcuni. Da quando mi collego su Internet, ci sono tante persone che mi scrivono, mi raccontano la loro vita, quanto sono stati importanti i Buzzcocks. Avevo completamente voltato le spalle a quella avventura, avevo lasciato Manchester per Londra. Steve Diggle, il nostro chitarrista, ogni tanto mi proponeva di riunirci. Gli dicevo "D'accordo, ma a una sola condizione: che tu riesca a mettere in piedi il gruppo con gli stessi membri di quando ci siamo separati". Non era un grosso rischio, perché sapevo che il bassista Steve Garvey aveva messo su famiglia negli Stati Uniti, il batterista John Maher si occupava solo dei dragsters che lui stesso costruiva. Non avevo alcun interesse a riaprire la questione, mi sembrava triste e inutile. Poi sei anni fa Steve Diggle ha forzato la mano riformando da solo il gruppo. Si è sparsa la voce che i Buzzcocks sarebbero ritornati, dei promoters americani erano disponibili a investire una fortuna per organizzare un tour: tre settimane a condizioni molto favorevoli. Uno dopo l'altro abbiamo messo da parte i rancori e siamo ripartiti insieme. Comunque non mi mancava.

Avevi rinunciato alla musica?

Provavo con la techno... Deluso dall'avventura Buzzcocks e dall'insuccesso dei miei album solisti, ero tentato di abbandonare la musica. Ma non so fare nient'altro. Tutti gli altri lavori necessitano che ci si alzi presto e questo è al di sopra dei miei mezzi. Non ho mai sopportato una vita organizzata, seguo solo il mio piacere. E certe volte anche la musica diventa una routine... persino nel momento in cui i Buzzcocks erano sulla cresta dell'onda mia madre mi chiedeva "Quando troverai un vero lavoro?". Alla fine ha capito che ero un vero artista. Una stronzata o no? (ride). Mi considero come un ballerino: il piacere di creare è fisico, mi sento diventare leggero e grazioso. Cantare mi dà una gioia immensa, sono triste per la gente che si limita soltanto ad ascoltare la musica. Continuerei a cantare anche solo per me stesso.

Molti gruppi influenzati dai Buzzcocks hanno raggiunto il successo. Provi gelosia?

A metà degli anni '80 sentivo che l'unico motivo per cui Steve Diggle voleva riformare il gruppo era di rimettere a posto le cose con i nostri eredi. Per me il fatto di sapere che le nostre canzoni erano state importanti per quei ragazzi mi bastava. È nella logica delle cose, sei sotto i riflettori e, in un attimo, devi lasciare il tuo posto. L'ombra non mi ha mai fatto paura. Perché ero convinto che la gente sapesse che noi eravamo i primi. La gloria è un bell'affare, ma si fa fatica! Non avevo neanche il tempo di apprezzarla, perché la mia vita era solo eccesso e follia.

Nel 1981 non c'era altra soluzione che lasciare il gruppo per ritrovare la normalità?


Non potevo più stare al gioco. Mi ricordo di aver visto un filmato su un concerto degli U2 in uno stadio italiano. Su degli schermi giganti passavano dei visi scelti tra la folla: al gruppo non interessava chi fosse venuto a sentirli. Mentre per me era il contrario. Più le sale erano grandi, più il pubblico era numeroso, più andavo in depressione. Avevo l'idea naive di poter suonare solo davanti al pubblico che amava la nostra musica, mai davanti a quelli che definisco 'turisti' nel senso che vengono al concerto per fare due chiacchiere o bere qualcosa. Per me il pubblico doveva essere concentrato, capire perfettamente ciò che cantavamo. Mi rifiutavo di entrare nella società dello spettacolo. Quando il Papa a Pasqua dà la benedizione, affacciato al suo balcone, quanti sono lì per il rito religioso, quanti soltanto per fare delle foto e passeggiare per Roma? Se fossi lui, preferirei rivolgermi soltanto ai credenti.

Ti piaceva non stare al gioco?

A scuola ero considerato un ragazzo adorabile, mentre passavo il tempo a cercare gli errori nel sistema. Non ero mai incazzato, ma in contrapposizione: lo scopo era di restare nella legalità cercando di trarre il maggior vantaggio possibile dal sistema. Quando è nato il punk mi sono sentito subito a mio agio. Col mio gruppo affittavamo dal pastore di Leigh (tra Manchester e Liverpool) la sua chiesa per organizzare dei concerti il sabato sera. Anche a scuola andavo a trovare i miei professori per organizzare i miei corsi, cambiare gli orari, in modo che alla fine avevo quattro giorni liberi a settimana. Facevo credere loro che sarei andato a studiare in biblioteca, in realtà passavo il tempo in una sala giochi a fumare e parlare di musica.

La musica quando è diventata importante?

Natale 1968. Mio fratello ebbe in regalo un giradischi. Con i ragazzi della mia età, profittavamo dell'assenza dei genitori per organizzare delle feste ascoltando dischi e bevendo sidro. La musica allora divenne il mio legame con gli altri. Vicino a casa, c'era un negozio di dischi in cui passavo il tempo a comprare o scambiare i singoli. Il 4 gennaio 1970 presi in mano la chitarra per la prima volta. Mi ricordo la data esatta perché la segnai sul mio diario. "Oggi piove, mi annoio. Voglio provare a suonare la chitarra di mio fratello".

Sognavi di abbandonare la tua famiglia?

Non ero abbastanza violento per prendere una decione simile. Leggevo i libri nella mia stanza, saggio come un'immaginetta. Era con mio fratello che si incazzavano per delle storiacce. Io ero felice, non soffrivo di claustrofobia per quella piccola vita. Il mio sogno era di fare una cassetta con una mia canzone, andare in una cittadina turistica sul mare dove, per pochi soldi, potevi stampare un flexi disc. Per anni sono andato avanti aspettando il giorno in cui sarei diventato un musicista. Del resto cosa potevo fare con il mio diploma di elettricista? aggiustare televisioni tutto il giorno? Piuttosto la morte. Per respingere ancora una volta la vita attiva, iniziai altri studi: filosofia e letteratura europea comparata. Era la mia vendetta su tutti quegli anni di scuola in cui mi era vietato studiare l'arte o la letteratura a favore della matematica e delle scienze.

All'epoca hai lasciato la famiglia per andare a studiare a Bolton vicino Manchester. Come hai vissuto la nuova esperienza di libertà?

A Bolton avevo una stanza in una grande casa tenuta dal sindacato degli studenti. La mia ragazza poteva stare con me, ho vissuto tutte le esperienze tipiche degli studenti. Non si va all'università per studiare, ma per scoprire la vita e i suoi eccessi (ride). In quella casa c'era uno scantinato dove avevo installato amplificatore e chitarra. Mi accontentavo di scrivere delle canzoni pensando che le case discografiche fossero delle fortezze inespugnabili. Mi sentivo condannato a restare ai margini perché mi rifiutavo di suonare nei bar: chi sarebbe riuscito a bere birra ascoltando le cover di White Light White Heat o dei Roxy Music?
Nel '75 lessi un annuncio nella bacheca "Si cerca musicisti per riprendere Sister Ray dei Velvet". Ho telefonato e ho incontrato quello strano tipo che conoscevo di vista, si chiamava Howard Trafford. All'epoca non si faceva ancora chiamare Howard Devoto. Ero felice di aver incontrato qualcuno che non si lasciava andare a lunghi assolo, che non voleva rifare Smoke On The Water. Passavamo i fine settimana insieme a parlare del nostro futuro e ad ascoltare la sua incredibile collezione di dischi pirata di Dylan. La sua stanza era piena di libri: Burroughs, Proust, Camus, che leggevamo ascoltando gli Stooges. Un giorno ci siamo tinti i capelli di rosso, ridicolo! Da Pete McNeish sono diventato Pete Shelley, perché un giorno avevo chiesto a mia madre come mi avrebbe chiamato se fossi stata una femmina. Per gli altri avevo scelto questo nome in omaggio al poeta. Era così ma in un modo contorto. Mia madre aveva scelto Shelley in omaggio all'attrice Shelley Winters che, a sua volta, aveva cambiato il nome da Shirley in Shelley per il poeta.

Come vi siete accorti che stava succedendo qualcosa attorno ai Pistols?

Quello che ci ha immediatamente attratto era il fatto che riprendevano gli Stooges come noi. Era necessario che le cose cambiassero, anche i gruppi heavy metal suonavano troppo lentamente per noi. Howard ed io pensavamo di essere gli unici frustrati a Manchester, ma quando abbiamo invitato i Sex Pistols abbiamo scoperto un sacco di gente come noi. Eravamo rassegnati alla solitudine, ai nostri strani dischi, grazie al punk abbiamo scoperto altri abitanti sul nostro piccolo pianeta. Avevo l'impressione di essere uscito di prigione, di poter incontrare gente. Morrissey era sempre lì in prima fila, perché fra lui e McLaren c'era la connessione New York Dolls: il primo si occupava del loro fan club inglese, il secondo era stato il loro manager.

Come si vestivano i primi punk di Manchester lontano dalle boutique di moda a Londra?

Un giorno sono andato in una boutique chic di Manchester con Howard, che si è comprato un pantalone a strisce blu e rosse. Il sarto voleva sapere quanto doveva accorciarli. Ma Howard se li fece soltanto stringere. Il poveretto era stupefatto di dover trasformare dei pantaloni a zampa d'elefante in pantaloni a tubo. Nel '76 mi sono bucato le orecchie, ci ho infilato delle spille da balia e una lametta. Non puoi immaginare l'orrore e lo scandalo che ho suscitato in città. Bisognava leggere a fondo la stampa musicale per sapere dell'esistenza del punk. Noi eravamo felici: gli imbecilli non ne avevano ancora sentito parlare e noi avevamo l'impressione di essere una grande famiglia. Non avevo mai avuto tanti amici sparsi nel paese. Il movimento cominciava a diffondersi in tutte le città: Liverpool, Bristol, Birmingham, Sheffield... A poco a poco ci siamo organizzati. A Manchester c'era un club omosessuale gestito da un travestito, Fof Foo Lamar. Nel weekend i punk cominciarono a frequentarlo, perché solo Foo Foo metteva Bowie e tollerava dei ragazzi truccati e bizzarri. Anche a Londra i primi club frequentati dai punk erano gay. L'ambiente era molto giovane, tollerante, glamour, decadente e sofisticato. La violenza è venuta più tardi, quando il grande pubblico si è impaurito e ha cominciato ad attaccare i punk che rappresentavano la degenerazione.

C'era rivalità con Londra?

Mai. Quando McLaren ha organizzato il suo festival "Scream on the green" - il primo concerto dei Clash - ci ha invitati. Un mese dopo ci ha chiamati al 100 Club - siamo stati l'ultimo gruppo punk a suonarci. In seguito abbiamo partecipato all'Anarchy Tour con i Clash e i Pistols, al posto dei Damned. Era eccitante andare a Londra, incontrare gente nuova come Siouxsie Sioux. Avevamo la sensazione di essere nell'occhio del ciclone, di partecipare ad un movimento importante. Bastava muovere il mignolo per scatenare la tempesta. Nessuno aveva osato fino a quel punto: si pensava che fosse vietato dalla legge di suonare così veloce e così male. Noi abbiamo fatto scoprire che tutto era permesso: un invito all'anarchia, all'azione. Adoravamo manipolare la stampa, la gente. Era l'idea principale del punk: un gioco di ruolo. Un po' come quelli che hanno iniziato a gettarsi dai ponti con un elastico attaccato al piede. All'inizio sono stati presi per pazzi ma a poco a poco la gente ha capito che non era solo un idiota gusto del rischio. Certi hanno visto il lato creativo dei punk, che inventavano uno stile, una musica.

Come hai capito che il movimento punk stava alla fine?

È durato fino al '77, poi è stato diverso. I gruppi hanno cominciato a firmare con delle multinazionali, a rientrare nei ranghi. È per questo che abbiamo fatto il nostro primo singolo, Spiral Scratch, da soli. Nessuno ci aveva ancora provato, tutti pensavano che solo le major avessero il diritto di far uscire i dischi. Ma ci si è resi conto subito che era facile. Tutti ci trattavano da folli, dicevano che saremmo rimasti con tutti i dischi sul groppone. Abbiamo fatto una colletta fra i nostri amici e i nostri genitori, abbiamo affittato uno studio per una giornata, registrato quattro pezzi. Abbiamo disegnato la copertina e stampato il disco in mille copie. Il giorno in cui è uscito ho comprato due bottiglie di vino per celebrare quel momento storico, pregando che ne vendesse almeno la metà. Nel giro di una settimana le mille copie erano state vendute.

Per il vostro primo album Another Music In A Different Kitchen (1978) avete firmato con una major. La leggenda vuole che Devoto abbia abbandonato il gruppo perché considerava questo gesto come una sottomissione.

Abbiamo scelto quell'etichetta perché conoscevamo Andrew Lauder, che aveva sotto contratto Hawkwind, Can, Neu e, in seguito, Stone Roses... Quando ha firmato con noi, non ci ha detto "dovete cambiare questo o quello". Non è per questo che Devoto se n'è andato nel '77. È stato per continuare i suoi studi che aveva abbandonato da tre anni. Non aveva voglia di rovinare tutto a tre mesi dagli esami finali per i Buzzcocks. Ha scelto lo studio, si è laureato e poi ha formato i Magazine. Ma siamo ancora amici.

Eri felice di essere diventato il solo leader del gruppo?

Non ho mai fatto schioccare la frusta per avere il gruppo in mano. Tutte le idee erano buone, le mie come quelle degli altri. Mi piaceva stare sotto i riflettori. Mi sembrava di essere il direttore d'orchestra e in più scrivevo le parole che erano la cosa che contava di più per me. Riuscivo ad esprimermi nei testi con più precisione e onestà che nella vita di tutti i giorni. Ripetere una frase dieci volte di seguito può dare un peso impensato a delle parole semplici. Tutti i messaggi che dovevo mandare alla gente li nascondevo dietro le canzoni. La persona a cui si riferiva il messaggio capiva ed io mi sentivo bene. Era il solo modo di esprimere la collera, il rancore perché ero incapace di dire alle persone cosa pensavo veramente.

Un altro tratto affascinante dei tuoi testi era quel modo di scrivere indifferentemente nei panni di un uomo e di una donna.

Morrissey ha trovato questo affascinante, ci ha costruito sopra tutta la sua carriera. Se scrivevo in quel modo, è perché la mia sessualità era piuttosto ambigua. Siccome sono bisessuale posso scrivere da un punto di vista femminile o maschile, so cosa gli uni e le altre provano. Le mie canzoni potevano quindi riguardare tutti, mi serviva una grande disciplina per gestire questo stile asessuato. Nessuno all'epoca scriveva di cose così personali. Passavo la mia vita a innamorarmi di persone sbagliate - a 40 anni non sono ancora cambiato.

Le tue canzoni sono diventate mano a mano più oscure e turbate; stavi perdendo terreno?

Registravamo e andavamo in tour troppo. Questo ha accelerato il processo di distruzione che, comunque, era inevitabile. Non ero fatto per essere felice. Non avevo più un secondo per me e, quando potevo scappare, non riuscivo a distendermi. Le mie depressioni cominciavano a diventare un problema per il gruppo. Sempre di più mi rifiutavo di stare al gioco, di accettare il compromesso. Ero intrattabile, sconvolto. Ho cercato di farla finita prendendo un intero tubetto di barbiturici, ma la mattina dopo mi sono svegliato che ero un fiore (ride). Allora ho capito che era meglio essere un uomo sofferente che un rimbambito col sorriso stampato. Verso il '79-'80 prendevo continuamente acidi, credevo che fosse utile per farsi delle autoanalisi a colori, incontravo Dio, capivo il senso della vita e della morte (ride). In studio mi nascondevo sotto il tavolo di missaggio e ne uscivo fuori solo quando dovevo cantare, quando i miei incubi mi abbandonavano. Nell'ultima tournée con i Joy Division le mie notti erano insopportabili. Non credevo in niente, figuriamoci nei Buzzcocks. Avevo dipinto un pavimento dimenticando di lasciare lo spazio per uscire: mi trovavo nel fondo della stanza all'angolo senza saper più cosa fare. È per questo che ho lasciato il gruppo e iniziato una carriera solista con Homosapien (1982).

Come ti sentivi dopo la separazione?

Era come la fine di un rapporto d'amore. Avevo fatto di tutto per continuare ad amarci, ma la coppia non si è comportata come avevo immaginato. Litigavamo, non ci amavamo più: perché restare insieme? Ero triste ma, soprattutto, sollevato. Perché avevo trovato una nuova storia d'amore, passionale, con il mio primo album solista. Il gruppo non aveva detto tutto, aveva ancora delle potenzialità, ma i problemi umani, finanziari, i rapporti con la casa discografica, con il management diventavano troppo pesanti. Per anni avevamo registrato in continuazione, facendo uscire i dischi ogni sette otto mesi. Eravamo ad un punto morto per delle questioni amministrative. La casa discografica ci lasciava marcire ed io ero sconvolto che ci potesse trattare con tale leggerezza. Il male era fatto: erano riusciti ad abbassare il morale delle truppe. Non avevo scelta: dovevo uccidere il gruppo. Non potevo lasciare che si dissolvesse.

Dalla vostra separazione molti gruppi hanno rivendicato la vostra influenza. Era frustrante o al contrario ti dava conforto?

Quanche anno dopo la separazione il New Musical Express pubblicò un articolo retrospettivo sui Buzzcocks. Avevo l'impressione di leggere un'orazione funebre. Ho dovuto smettere di respirare per rendermi conto che ero ancora vivo. Noi non avevamo idea di fare una musica così importante. Ma presto mi sono accorto della nostra influenza sugli altri. Non si dirà mai abbastanza su quanto hanno preso gli Smiths da noi. Ma la riabilitazione sta andando avanti: con Elastica e compagnia viene ammessa la nostra importanza.
Ci siamo accontentati di passare la staffetta: l'abbiamo ricevuta da Bowie, dai Velvet, da Bryan Ferry e l'abbiamo passata a Morrissey o Supergrass... Lou Reed ha molte più ragioni di noi di essere furioso della sua discendenza. Che dei crimini commessi in suo nome.

di J.D. Beauvallet - Traduzione di Bianca Spezzano

martedì 2 febbraio 2016

DIAFRAMMA @ VINILE - ROSA' (VI) - 30/01/2016




Vero lusso saper di poter assistere annualmente o quasi ad una esibizione dei Diaframma in zona Veneto; la band di Federico Fiumani, infatti, è praticamente sempre "on tour” e la cosa, almeno dal sottoscritto, è accolta con gioia e aspettativa ogni volta che si avvicina un concerto.
Già intorno alle 22.45, quando sale sul palco Miss Xox, il Vinile è bello pieno e io ho in testa quella vecchia canzone di Iggy Pop, "Nightclubbing, we're nightclubbing, we're what's happening".
Miss Xox è una leggenda underground, mente del Great Complotto di Pordenone nei tardi '70 assieme ad Ado Scaini: Hitlerss, Andy Warhol Banana Technicolor, El Funeral de Kocis le sue medaglie al petto; insomma, un pezzo di storia.
Piace vederlo ancora in giro, con il suo quartetto propone un rock punk wave caustico e tagliente cantato, anzi, declamato in italiano, in cui è l'urgenza espressiva a farla da padrona a discapito di melodie o trame sonore orecchiabili praticamente assenti.
Un buon aperitivo in vista dei Diaframma, che intorno alla mezzanotte prendono posto sul palco.
La serata del Vinile è presentata come "Diaframma performing Siberia", il primo lp capolavoro della band fiorentina, ed è normale quindi che la scaletta si apra con le note dell'evocativa titletrack che spedisce subito tutti quanti dritti in orbita.
Si, lo so che questi non sono i Diaframma degli anni '80, però i pezzi scorrono via lo stesso che è una meraviglia: "Neogrigio", "Amsterdam", "Delorenzo", "Specchi d'Acqua"; i fraseggi di chitarra della Fender di Mr. Fiumani, in certi punti, sono sempre emozionanti, sia su disco che live. Poi lui, come ho già detto da queste parti, è uno che mi piace, ha dalla sua onestà, storia e un attitudine generale che fa lezione: scusate se è poco.
Eseguito per intero "Siberia", è l'epocale "Gennaio" ad aprire la seconda, sostanziosa, parte di concerto, in cui vengono prese in rassegna tutte (o quasi) le canzoni più significative della storia diaframmatica.
C'è "L'odore delle rose", "Diamante Grezzo", "Io ho te", "Labbra Blu", l'omaggio ai Television con "See no Evil".
Faccio prima a dire cosa mancherà al computo finale: "Tre Volte Lacrime", "Caldo" e "Blu Petrolio", oltre alla totale assenza di canzoni degli ultimi tempi; per il resto in due ore circa di concerto la band non si risparmierà affatto, sia sotto il profilo quantitativo, sia per l'energia generale profusa in un live che penso lasci pochi scontenti.
Sono quasi le due quando terminano le ultime note, piena notte, e le luci della Strada Statale Valsugana ci accolgono quando risaliamo da sottoterra. Splendida serata.

domenica 6 dicembre 2015

CALIBRO 35 @ VINILE - ROSA' (VI) - 03/12/2015


Concerto infrasettimanale di peso allo storico Vinile di Rosà; i Calibro 35, infatti, sono sicuramente uno dei nomi più caldi nel panorama alternative italiano, forti di una produzione discografica di immutata qualità dagli esordi ad oggi, confermata dall'ottimo "S.p.a.c.e." di fresca uscita.
Alle 23 circa la band sale sul palchetto con il club stipato in ogni ordine di posto, occorre farsi largo per ricavarsi uno spazio da cui poterli intravedere all'opera.
Parte un estratto vocale tratto da un film fantascientifico spaziale anni '60 e sotto i Calibro 35 iniziano a macinare il loro groove che per un ora abbondante alletterà i presenti.
Il quartetto alterna dilatazioni cosmico psichedeliche a travolgenti cavalcate rock jazz funk; uno stile sonoro ovviamente debitore di certa tradizione italiana (leggi Umiliani, Piccioni, Micalizzi) e in cui precisione di esecuzione e tecnica esecutiva la fanno da padrone.
Stiamo parlando di pezzi strumentali decisamente evocativi, che forse risalterebbero più compiutamente se accompagnati a qualche video proiettato sullo sfondo (un crossover tra film polizieschi e fantascientifici, visto che l'ultimo album va a parare proprio da quelle parti) un po' come vidi fare ai Julie's Haircut lo scorso autunno.
Parlano poco sul palco i nostri, anzi proprio non parlano proprio mai, lasciando spazio esclusivamente al ritmo, che coinvolge tutti.
Da segnalare la manciata di pezzi eseguiti assieme alla sezione fiati degli Ottone Pesante (band sperimentale tromba/trombone/batteria che ha aperto il concerto), in cui le melodie, in certi punti, sembravano avvicinarsi stranamente a certe cose degli Skatalites.