BUZZCOCKS – SOUNDVITO – SAN VITO DI LEGNAGO (VR ) – 08/06/2013



I Buzzcocks nella Bassa Veronese: bello.
Una zona che mi piace, distese di campi e risaie, strade larghe tre metri, un paesetto ogni tanto che ti chiedi dove vanno i ragazzi al sabato sera se non andare al bar di ritrovo.
E’ proprio nella piazza di uno di questi paesetti che si incontrano nelle vicinanze di Legnago (San Vito) che si sono esibiti i Buzzcocks.
Favoloso: ti giri a sinistra e c’è la chiesa e il mini centro del paese, mentre di fronte hai una delle band più significative del punk rock tutto, ma oserei dire anche di quella cosa chiamata rock.
L’occasione è di quelle grosse ed organizziamo una macchinata di cinque elementi.
L’attesa scorre via liscia annaffiata da diverse birre e qualche discussione sul calciomercato che verrà.
A mezzanotte finalmente i quattro salgono sul palco per un set che personalmente mi aspetto esplosivo, visto l’affetto musicale che provo verso i mancuniani.
La prima volta li vidi dieci anni giusti fa alla Gabbia di Bassano del Grappa: ubriachissimi, con Pete Shelley che ogni 3 x 2 si girava a fare l’occhiolino a due tardone a lato del palco e con bottiglie di spumante sopra gli ampli.
Questa volta mi sembrano più sul pezzo e macinano che è un piacere: “Boredom”, “Fast cars” e “I don’t mind” il trittico iniziale che non lascia scampo.
Volumi altissimi, energia che tra il pubblico (almeno per chi è coinvolto) si potrebbe tagliare a fette.
Dell’ultimo album “Flat Pack Philosophy”, uscito oramai nel 2006, non eseguono neanche un brano, privilegiando una scaletta che risulta essere praticamente un best of dell’intera produzione; evidentemente i Buzzcocks hanno capito che dopo trentacinque anni dalla fondazione possono permettersi di suonare in giro senza dipendere dal meccanismo “album – tour di supporto”, anche se comunque un nuovo album verrebbe senz’altro accolto con gioia da chi li segue come il sottoscritto.
Da segnalare un capitombolo che vede coinvolto il chitarrista Steve Diggle che ad un certo punto inciampa su un filo cadendo alla grande per terra e suscitando un applauso di viva simpatia da parte dei presenti.
A metà spezzano con le lunghe suite quasi meccaniche di “Moving away from the pulsbeat” e “Nothing’s left”, in cui ne approfitto per fare circa un litro di piscio in mezzo ad un campo.
Uno sguardo ai quattro: Pete Shelley ha addosso una camicia a maniche corte (già vista in qualche foto abbastanza recente), che nella grafica sembra richiamare dei concetti di grafica postmodernista a cui i Buzzcocks dedicarono parecchia attenzione nella prima fase di carriera (1976/1981) per quanto riguarda le copertine dei dischi e le grafiche in generale: la voce sembra ancora quella dei tempi d’oro e questo basta.
Steve Diggle è il mod del gruppo: vestito bene, pulito, elegante, Union Jack nell’amplificatore con sopra disegnato il simbolo della pace.
Gli altri due (bassista e batterista) mi sembrano belli in forma, fanno il loro e anche visivamente contribuiscono alla buona riuscita dell’insieme.
Al termine della prima fase la doppietta “Promises” – “What do i get” ti lascia senza fiato.
Dopo una breve pausa, il finale è affidato a “Harmony in my head”, “Ever fallen in love” e “Oh shit”, roba da restarci sotto.
Giusto dieci anni fa avevo il Ciao e sul casco avevo scritto con l’adesivo “Oh shit” in omaggio ai grandi Buzzcocks.
Il tempo passa veloce, però se sai che ci sono in giro canzoni come quelle dei Buzzcocks e soprattutto hai modo di vederli ancora calcare il palco, non puoi che tirare una conclusione positiva.

DIAFRAMMA – MACELLO – PADOVA – 11/05/2013



Sempre bello aver la possibilità di assistere ad un concerto dei Diaframma, come è bello sapere che in giro c'è uno come Federico Fiumani, un artista che in trent’anni di carriera ha composto memorabili pagine di rock tricolore.
Rock Italiano: ecco cosa fanno i Diaframma. Rock Italiano della miglior specie, di quello che dovrebbe avere ampi riconoscimenti in tutto il Paese, se solo ci fosse un po' di giustizia musicale.
E comunque i Diaframma il loro seguito ce l’hanno sempre: una nicchia, certo, ma fedele e appassionata al verbo, perché quando lo scopri e lo apprezzi poi è difficile staccarsene.
Al Macello di Padova, in un sabato sera di maggio, eravamo poco più di un centinaio: comunque pronti a tirare fuori dieci carte per il concerto, e attenti a quello che veniva fuori dagli amplificatori e dalle casse.
In un set di circa cinquanta minuti passano in rassegna tutti i momenti migliori della band fiorentina: Siberia, Gennaio, Tre Volte Lacrime, Labbra Blu.
Testi nella maggior parte dei casi evocativi, personali, accompagnati da una base rock punk in cui la scena se la prende tutta il suono della chitarra di Federico Fiumani: un suono bellissimo, di marmo, d’impatto.
Frasi a volte urlate, con la voce che quasi neanche ci arriva, qualche errore tecnico: chissenefrega, non m’importa nulla a me.
Spirito punk che in questo caso vuol dire far le cose artigianalmente e umanamente, non meccanicamente, sennò chiamiamo i robot a farle.
Alla fine del concerto un tizio chiama a sé Fiumani, che si sporge dal palco per ascoltarlo, poi riferisce:  “Mi hanno detto che è il compleanno di una ragazza, che vorrebbe riascoltare Siberia e Gennaio”, già eseguite precedentemente; senza problema alcuno attacca con l’arpeggio di Siberia e poi con il riff di Gennaio.
Tutto è personale nei Diaframma: le canzoni, l’attitudine, il suono.
E nell’appiattito mondo musicale c'è sempre bisogno di un gruppo così.

GIUDA - MAXIMUM FESTIVAL - TRATTORIA ALTROQUANDO - ZERO BRANCO (TV) - 03/05/2013



A distanza di tre giorni dai Dr. Explosion, torno al Maximum Festival per vedermi i Giuda.
Sono curioso di vederli, nell’ambiente ne parlano bene un po’ tutti: Luca Frazzi su Rumore li spinge già da un annetto a questa parte, e non posso negare che non mi dispiace per niente un certo riferimento visivo/stilistico che la band ha dalla sua parte: un gruppo contemporaneo che si rifà a quei suoni che spopolavano tra i cosiddetti boot boys inglesi nella metà dei 70’s: Slade, Sweet, Gary Glitter e compagnia cantante.
Cinque euro di ingresso (prezzo onesto) e due gruppi spalla per far passare le due orette che portano all’esibizione dei Giuda intorno alla mezzanotte.
Il quintetto romano suona sostanzialmente un rock’n’roll riffato bello compatto e quadrato, con voce inserita bene e rafforzata a puntino dall’aiuto vocale dei chitarristi e del bassista.
Zero parole e quaranta minuti di musica che non fa prigionieri.
Una canzone come “ Teenage Rebel ” è talmente costruita bene che sembra quasi essere una cover di una hit proveniente dal sottobosco musicale a cui si rifanno. 
“Number Ten” parla di calcio, del fantasista dai piedi buoni che ogni squadra dovrebbe avere nell’undici titolare.
Sicuramente, ad occhio, tra il pubblico c’è parecchia gente che sputa merda sul calcio in nome del proprio integralismo alternativo, quelli che tifano la Nazionale solo quando arriva in finale in qualche competizione: ecco, allora mi fa ancora più piacere ascoltare “Numero Dieci”.

DR. EXPLOSION - MAXIMUM FESTIVAL - ZERO BRANCO (TV) - 30/04/2013



Ogni tanto mi capita di andare ai concerti da solo; oddio, in percentuale sono di più quelli che ho visto e vedo in compagnia, però ogni tanto succede che, per vari motivi, prendo la macchina in solitaria e vado al concertino che mi sono segnato da tempo in agenda.
Questa alla Trattoria Altroquando (ho già avuto modo di tesserne le lodi qualche tempo fa) è la prima serata del Maximum Festival, iniziativa lodevole messa in piedi dalla Go Down Records, oramai conosciutissima etichetta del trevigiano con in carnet diverse band.
L’idea del festival è quella di far suonare i gruppi dell’etichetta, piazzando di solito un gruppo esterno di punta.
Arrivo giusto per beccarmi l’inizio della prima band in scaletta, i veneti Supertempo, che si rivelano essere una piacevole sorpresa.
Sostanzialmente trattasi di punk rock melodico, veloce e lineare, con dei bei giri di basso a sostegno; in certe occasioni mi sembrano parecchio indebitati con certe cose degli Hard Ons, anche se forse mancano i pezzi bomba dei cangurotti.
Ad ogni modo un bel set, frizzante e piacevole.
Dopo i Supertempo, salgono i Bluesevil, tre ragazzi con un accento non veneto (scoprirò poi essere mezzi romagnoli).
Capisco subito che sarà una mezzora lunga per me: i tre, infatti, suonano una specie di hard rock blues con assoli di chitarra lunghi dieci minuti, una cosa che mi fa stracciare le palle in maniera inaudita.
Dei tizi grandi e grossi davanti a me, che sembrano usciti dal classico bar di provincia, fanno si con la testa e dimostrano di apprezzare, probabilmente memori del cd dei Guns’n’Roses che tengono in macchina, ma io non la reggo sta roba qua.
E’ che sono da solo, allora mi prende male farmi mezzora in solitudine con cotanta colonna sonora; per fortuna mi perdo a guardare un ragazzo e una ragazza, avranno sedici anni a testa, che incuranti di tutti e tutto saltano, ballano maldestramente, fanno mosse di qualche disciplina asiatica del cazzo, addirittura si rotolano per terra durante una pausa tra un pezzo e l’altro.
Dopo un po’ che li guardo interessato, mi accorgo che ci sono altri ragazzi intorno a me tutti presi dalla scena dei due, e noto che sghignazzano tra di loro.
In breve comincio a ridere di gusto anch’io, da solo, una cosa che non mi fermo più.
Per fortuna che il gruppo finisce e salgono gli spagnoli Dr. Explosion.
Non li conosco, o meglio non li conoscevo fino a quando è uscito il programma del Maximum e allora sono andato a vedermi un paio di video.
Roba interessante, la loro.
Purtroppo io sono ancora fermo ad ascoltare i gruppi inglesi e magari americani, però difficile che ascolti qualcosa di extra anglosassone (apparte ovviamente i gruppi italiani); e si che in passato ogni tanto i Pekinska Patka o i Los Nikis gli ascoltavo volentieri, ma anche adesso non avrei problemi, solo che poi la musica che conta nella vita è altra.
Comunque i tre spagnoli macinano che è un piacere con il loro beat/garage/r’n’r  senza troppe pippe mentali, e inoltre, punto che molte volte risulta non pervenuto nelle band italiane sotterranee, sanno tenere bene il palco, o meglio, il cantante chitarrista sa tenerlo.
Tipetto simpatico, una sorta di Edwyn Collins periodo Orange Juice, con il suo mix di italiano e spagnolo parla alla pubblico di dracula e pompini, sposta le transenne e viene a suonare in mezzo al pubblico.
Il gran finale vede tutta la band sulla pista del pubblico, il batterista con il timpano e basta che suona un boogie, con chitarra e basso che gli stanno dietro ed emanano una specie di surf primitivo.
Il pubblico preso bene, coinvolto e soddisfatto, può tornare a casa felice.

NIKKI CORVETTE & THE ROMEOS - REVOLUTION - MOLVENA (VI) - 24/04/2013



In un Italia sempre più allo sbando, con migliaia di ragazzini che sembrano aver perso mano per le passioni pure, come può essere la musica e quello che ci gira attorno, per fortuna c’è ancora chi riesce ad organizzare serate di livello non distanti da casa mia.
Io ogni tanto ci provo ad organizzare qualcosa: far suonare un gruppo,metterci dietro due dj con i vinili.
Insomma, premiare un certo modo di fare e vedere le cose.
Se non c’è futuro neanche nella vita “regolare”, con molti che non sanno cosa faranno da qua a tre mesi, perché non investire tempo nelle cose che ti piacciono?
E’ chiaro, mi sembra, che il modello “metti la testa a posto” ne esca ridimensionato da questi anni 2000: lavoro sicuro/famiglia, con le vere passioni adolescenziali spesso sacrificate da molti sull’altare di questa presupposta “normalità”, sembra una strada che non porta più da nessuna parte.
Io invece so che le passioni sono importanti, sono una cosa seria e vanno rispettate.
La serata di cui scrivo è organizzata presso il locale Revolution di Molvena.
Mai stato prima di mercoledì, forse perché ci fanno sempre serate di merda con cover band, o forse sono io che mi sono perso qualche passaggio.
Comunque ci suona Nikki Corvette, meteora del punk a stelle e striscie fine anni’70, una scena pericolosa con dentro dei tipetti mica da ridere, dove lei invece suonava con le Corvettes un bubblepunk da fumetto adolescenziale.
Tre ragazze pecorelle in mano ai lupi che ciondolavano nei bassifondi delle città.
Non durarono molto le Corvette, e poco si sa della fine che fecero finita l’esperienza musicale.
A pensarci mi vedo bene Nikki Corvette a gestire la tabaccheria all’angolo, oppure fare la barista in bar da schifo o a lavorare in un panificio.
Ad ogni modo è stata fuori dal giro per parecchio tempo anche la brava Nikki, ed è rientrata giusto qualche anno fa con qualche progetto sporadico.
In questo tour europeo, che ha in quella di Molvena la seconda data, è accompagnata da una backing band italiana, i Romeos.
Hervè dei Peawees, Franz Barcella (che ricordo bene come penna acuminata di Bam, oramai un decennio fa) e il fratello di Franz.
Noto con piacere che la band ha un banchetto merchandising: capita molto spesso, infatti, ad un tradizionalista come me, di non trovare uno straccio di ricordo da portare a casa con i gruppi originali degli anni ’70 (mi vengono in mente i Selecter).
Nikki Corvette & The Romeos sono in giro ufficialmente a promuovere il loro primo singolo insieme, un  7” con due canzoni, che scoprirò essere davvero pregevoli una volta tornato a casa ed avergli appoggiato la puntina sopra.
Dopo due gruppi spalla, i Diplomatics (punk’n’roll derivativo) e i Dancers (sorta di indie kids che sembrano aver studiato bene sugli album dei Gaunt), la star della serata sale sul palco intorno a mezzanotte e mezzo.
Quaranta minuti di power pop e teen punk come se piovesse, i cui picchi sono rappresentati da “Backseat Love” e “Girls Like Me”.
Bella la cover dei Buzzcocks, “What do i get?”,che il pubblico sembra apprezzare particolarmente.
Tutto sommato un bel set, frizzante, con Nikki Corvette che sembra non aver smarrito di molto la vocina adolescenziale di trent’anni fa, a discapito della forma fisica, quella sì, purtroppo, barattata con il diavolo in cambio di un posto di gloria (seppur in economica) nell’ottovolante del rock’n’roll.

BRUCE FOXTON “FROM THE JAM” – DEPOSITO GIORDANI – PORDENONE – VENERDI 22 FEBBRAIO 2013



Paul Weller, Bruce Foxton e Rick Buckler erano i tre nomi che costituivano i Jam, band che segnò in maniera indelebile il proprio tempo tra la fine degli anni ’70 e i primi ’80, ponendosi come un nome immarcescibile nella gloriosa tradizione di suoni di stampo britannico.
Who, Kinks, Small Faces i padri, Jam ed altri (penso ai Madness) nel mezzo e il britpop degli anni ’90 in seguito.
Una carrellata di nomi le cui carriere andrebbero studiate tra i banchi di scuola, magari con una bella gita a Londra come corollario.
Dopo la fine dei Jam nel 1982, la storia ha dimostrato come sia stato Paul Weller quello che se l’è cavata meglio, almeno per quanto riguarda il crescente successo di pubblico, tra Style Council e una carriera solista tuttora attiva.
Bruce Foxton, che dei Jam era il bassista, rilasciò un album solista nel 1984 (con una produzione forse troppo legata ai suoni del periodo e di conseguenza invecchiata male), per poi confluire negli Stiff Little Fingers come onesto musicista, abbandonando ogni velleità solistica.
Come capita poi a molte seconde linee di band del passato, Foxton ha deciso di monetizzare un minimo quanto creato con i Jam, mettendo in piedi i “From The Jam” (con Rick Buckler alla batteria, ora non più in formazione), con in quali porta in giro le canzoni della sua vecchia band.
Poi all’improvviso una scossa: ad ottobre 2012 il buon Bruce pubblica un album a proprio nome, “Back in the Room”, decisamente ben riuscito, che suona praticamente come suonerebbero i Jam nel presente.
E questo, a mio parere, non può essere che un bene.
Comunque, arriva venerdì 22 febbraio e mi dirigo come programmato in quel di Pordenone.
Ingresso a 15 euro (non poco ma attutito da un locale bello, pulito, riscaldato e da uno show che spero sia memorabile).
Alle 22.40 circa iniziano i Kickstart, nome storico dell’underground pordenonese, con dentro gente che suona dai tempi del Great Complotto, storico movimento cittadino fine anni ‘70/anni ’80, una fucina di idee e creatività senza paragoni, almeno in Italia.
I Kickstart fanno un buon punk ’77 figlio dei Buzzcocks quanto dei Damned, per certi versi vicino ai Cute Lepers, per agganciarci ad una band contemporanea; mezzoretta di show, canzoni tirate e  melodiche, suoni perfetti, e alle 23.30 è già pronto Bruce Foxton accompagnato da un chitarrista/cantante e da un batterista.
Partono subito alla grande con “Down in the tube station at midnight”, seguita da “This is the Modern World” e “David Watts” dei Kinks, coverizzata dai Jam in “All Mod Cons”.
Il pubblico inizialmente sta un po’ sulle sue, non so perché, tant’è che lo stesso Bruce Foxton si sente in dovere di ricordare a tutti che sarebbe anche venerdì sera.
Piano piano l’ambiente si scalderà, anche se nel complesso sarà un concerto molto tranquillo quanto a partecipazione; ad ogni modo l’ex Jam fa sfilare, in ventidue canzoni di scaletta, tutto il meglio del repertorio di casa Jam, aggiungendoci un paio di ottimi pezzi tratti dal suo ultimo lavoro.
“Going Underground”, “Pretty Green”, “Strange Town”, “In the city”, “Town Called Malice”.
Io adoro i Jam: i suoni, le parole, le melodie. E’chiaro che trovarmi di fronte il bassista di quella band che mi sciorina tutti i classici non mi lascia indifferente.
E’ una bella botta di vita, quelle che vorresti ce ne fossero almeno una volta al mese, e che sei contento ti arrivino dalla musica.
Puoi ritenerti fortunato, ti ritrovi a pensare che in un certo senso hai seminato bene se poi quelle stesse canzoni che hai ascoltato mille volte su disco, dal vivo riescono a darti una carica che durerà per un bel po’, almeno fino al prossimo concerto del gruppo di cui conosci a memoria tutte le canzoni.



BOB MANTON - PURPLE HEARTS SCORCHERS


Cercando tra le influenze dei miei gruppi preferiti, digitando parole chiave tipo "Purple Hearts Reggae Dub" (incuriosito dalle influenze che i Purple Hearts avevano per le loro canzoni "Plane Crash" e "Concrete Mixer",con i bassi a farla da padrone) capita di imbattermi in queste due immagini scannerizzate che dimostrano come a Bob Manton, che dei Purple Hearts ne era il cantante, fu data la possibilità di compilare un 33 giri con le proprie canzoni preferite.
Sicuramente l'operazione commerciale si sarà rivelata un disastro, ma almeno ora posso sapere (io e probabilmente altri dieci pazzi in tutto il mondo) quali fossero la canzoni preferite da Bob.


BRAVI RAGAZZI (primi Melt) - CSA ARCADIA - SCHIO (VI) - 26/01/2013



Si dice sempre che il miglior alleato di un’attività sia il passaparola, sistema che presuppone la volontà di consigliare ad un qualcuno interno alla propria rete sociale di usufruire di un servizio in cui ci si è trovati molto bene.
Attività nobile il passaparola: le motivazioni devono essere forti se decido di spendermi, senza nessun ritorno, per promuovere un qualcosa.
Ecco, con i Melt dei primi due album, con il sottoscritto e molta altra gente è andata proprio così.
Eravamo troppo giovani per vivere in diretta l’epoca di “Bravi Ragazzi” e “Sempre più distanti”, e arrivammo giusto con tre/quattro anni di ritardo, quando la band aveva preso un’altra strada sonora e di line up.
Però quei primi due album ci segnarono, ci folgorarono.
Si creava un giro di passaggi, animati solamente dal piacere di dare un qualcosa che indirettamente parlasse un po’ di te all’altro, che rendeva alla perfezione il passaparola di cui sopra: “ti faccio una cassetta”, “ti giro un cd”.
“Bravi Ragazzi” è del 1997: punk rock lanciato e melodico, testi memorabili, canzoni belle dalla prima all’ultima.
“Sempre più Distanti”, il seguito datato 1998, è, se possibile, un passo in avanti in direzione di un punk’n’roll  eseguito alla perfezione e dai connotati più maturi; sicuramente una delle vette per quanto riguarda i dischi usciti in Italia legati al giro punk rock, e peccato per chi non lo conosce.
Eh si, perché i Melt hanno sempre goduto di un grande seguito nella zona vicentina e veneta in generale, però non è dato sapersi quanto siano conosciuti, ad esempio, in Lombardia o in Piemonte, ma penso non molto.
Folgorati sulla via dei Melt, quindi.
“Bravi Ragazzi” lo ascoltavo in cassetta, con il walkman, nei primi anni zero; il walkman rendeva il tutto ancora più grezzo e sporco, chitarre lancinanti, certe parole che non riuscivo a decifrare.
Quando ebbi l’occasione di ascoltarlo in cd rimasi di pietra  a scoprire che in realtà la registrazione era molto più pulita di quanto ascoltato da me; infatti resto totalmente legato a quella cassettina doppiata.
“Sempre più distanti”, invece, aveva certi testi talmente cupi che non c’è niente di meglio per descrivere come ti senti a vent’anni.
Anche qua parole che non si capivano, “Giorno su giorno” che aveva una stranissima seconda melodia parallela alla principale, da cui ogni tanto emergevano parole che sembravano essere “qualcosa”, “invece”.
All’Arcadia di Schio (bel posto e prezzi onesti) c’erano tutti i ragazzi della zona a cui i Melt degli esordi hanno dato qualcosa, e il locale straripava nel senso vero del termine.
La serata è strutturata in questo modo: Vince alla chitarra/voce e Gian alla batteria ovviamente fissi, accompagnati a turno da vari bassisti e secondi chitarristi.
Partono con “Resterai solo” e puntuale scatta un entusiasmo che si trascinerà lungo tutta la serata.
Suonano tutto “Bravi Ragazzi” e gran parte di “Sempre più Distanti”.
Concerti così, pure botte di vita, dovrebbero essercene ogni settimana, o almeno ogni mese: qualche partito del cazzo che ora si sta scaldando per la tornata elettorale dovrebbe metterlo per iscritto nel programma.

SKA.J - GARAGE CLUB - SAN MARTINO DI LUPARI (PD) - 11/01/2013


Il Garage Club è un posto intrappolato in una tipica zona industriale veneta, quelle che dal venerdi sera al lunedi mattina sono deserte, quelle che se fossimo a Napoli ci organizzerebbero corse clandestine di auto.
Zone spettrali, con le prostitute che battono dal tramonto all'alba.
Il locale vero e proprio è un magazzino adibito a "locale rock", come ce ne sono diversi sparsi nel Veneto.
Oramai si può dire perfettamente compiuto il decentramento dei locali notturni in zone squallide e tetre, con i cittadini del centro che reclamano il loro diritto di stare tranquilli (di solito se vuoi stare tranquillo prendi casa in campagna, almeno un tempo funzionava così, ma tant'è).
Con questi presupposti, è facile che l'11 gennaio la zona appaia davvero dura, vuoi per la scenografia industriale, vuoi per il freddo gelido; questo per spiegare che un gruppo come gli Ska-J probabilmente si apprezzerebbero maggiormente in condizioni ambientali diverse, ad un festival all'aperto per esempio, con una bella birra ghiacciata in mano e vecchio ska nell'aria a farti compagnia.
Loro comunque suonano che è un piacere, tra cover di classici ska e brani autografi.
Il poco pubblico presente inizialmente sembra abbastanza sulle sue, per poi lasciarsi andare in balli cretini lungo il concerto.
A proposito, ma come ballano lo ska questi qua?! Saltellando, facendo piroette, liberando i sensi.
Cazzo, è una cosa seria: secondo me dovrebbbe essere ballato da fermi, ondeggiando sul posto, con stile, come gli skinheads a Londra nel '69 con i dischi della Trojan, della Treasure Isle e della Pama.
A Woodstock non si ballava ska, ricordatevelo.
Concludendo, gli Ska-J in estate dovrebbero suonare ogni sera, come le orchestre di liscio.

COLPO GOBBO NELLE HIGHLANDS


Gang of Four!

IL MEGLIO DEL 2012 - DISCHI



Anno che volge al termine e quindi tempo di stilare liste.
Ecco un elenco, senza pretese classificatorie, di dischi usciti nel 2012 che ho apprezzato particolarmente.

Dischi Italiani

Diaframma – Niente di Serio 

Decisamente un buon album per una band che rappresenta la storia del rock italiano.

Nel disco in questione vengono rappresentate alla perfezione le due anime del gruppo fiorentino, quella più rock e quella più riflessiva.

Offlaga Disco Pax – Gioco di Società 

Oramai sono una certezza del panorama italiano.

Immaginario forte e dischi sempre ben fatti.

Karibean – Andersen 

Italiani, scoperti quest’anno, stupiscono per il pregevole incrocio tra Ramones/Beach Boys/ Pastels, il tutto suonato come lo suonerebbe una misconosciuta band inglese epoca C86.

A Classic Education – Call it Blazing!

Un disco perfetto. Qua dentro ci sono canzoni che suonano decisamente senza tempo, pregne di melodie indimenticabili.

Un gruppo bolognese che se la gioca in tutto il mondo.

Dischi Stranieri

Prinzhorn Dance School – Clay Class 

New Wave cupa, glaciale e stilosa; da ascoltarsi in cuffia mentre si attraversano a piedi deserte ghost towns post industriali.

Jah Wobble. Keith Levene – Yin & Yang 

Parecchio solido quest’album dei due ex Pil.

Atmosfere Dub Rock metropolitane.

Jake Bugg 

Sorprende in positivo l’esordio di questo sbarbato diciottenne inglese.

Canzoni classicissime che odorano di Beatles e Brit Pop.

Paul Weller – Sonic Kicks 

La aspettavo attentamente questa nuova uscita di Paul Weller; risultato che convince per metà, visto che all’interno qualcosa di buono c’è, ma spesso è accompagnato da esperimenti non all’altezza della situazione.

Da segnalare anche: 

Bruce Foxton (l'ho ordinato e sto aspettando di riceverlo, ma da quel poco che ho sentito sembrerebbe parecchio interessante), Madness (album carino ma non memorabile), Tre Allegri Ragazzi Morti (buon album, a metà tra lo stile classico della band e cose più nuove), Cribs (qualche pezzo britpop degno di nota, altri meno), Vaccines (mi piacciono a sprazzi).

ENRICO BRIZZI - L' INATTESA PIEGA DEGLI EVENTI

Un libro corposo, segnato da uno stile pulito, per uno scrittore che inizio ad apprezzare sempre di più.
E' il secondo libro di Enrico Brizzi che leggo: il primo, "La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco", pur essendo un excursus per lo scrittore bolognese, lo avevo trovato divertente ed interessante.
Qui siamo nel 1960: la seconda guerra mondiale è terminata in un altro modo rispetto alla versione originale e il fascismo persiste, seppur con modalità leggermente meno totalitarie.
Il buon Lorenzo Pellegrini, trentenne giornalista sportivo bolognese, viene inviato nelle Repubbliche associate Africane (nello specifico Etiopia ed Eritrea) per seguire da vicino la Serie Africa, campionato calcistico locale.
Lo attenderà una realtà a suo modo moderna, vivace, attiva.
Aregai è un basettone, me lo vedrei bene a ballare Ska e Rocksteady con gli Skinheads a Londra nel '69, mentre Cumani è un giocatore working class che raffigurato sulla copertina mi ricorda vagamente Roberto Pruzzo.



TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI – VINILE – ROSA’ – 29/11/2012



Avevo un po’ perso di vista i Tre Allegri Ragazzi Morti negli ultimi anni; nel mio percorso di appassionato a certi suoni è capitato, e capita ancora, che fasi della vita siano caratterizzate dall’ossessione verso determinate band.
Dai quindici ai vent’anni una delle band per me più importanti furono proprio i Tre Allegri Ragazzi Morti.
Sembra il solito discorso che poi cresci, maturi e cambi ascolti; in realtà è andata che certe tematiche adolescenziali ad un certo punto mi sembravano un po’ stagnanti e da “film”.
Capita. 
Probabilmente era necessaria una fase di allontanamento per poi poter osservare il quadro nel suo insieme più ampio, da esterno se vogliamo, perché se è vero che la tematica portante del gruppo pordenonese  è l’adolescenza e i suoi risvolti, è anche vero che la mia, almeno anagraficamente, è finita da qualche anno.
Allora le tematiche si riescono a guardare sotto un’altra stella, in grado di comprendere e decifrare il tutto sotto un ottica quasi sociologica se vogliamo: Tre Allegri Ragazzi Morti, una band, un immaginario forte che resiste negli anni, un gruppo non identificabile in maniera ortodossa con un genere perché inventori a loro modo di un qualcosa.
Dal vivo è da parecchi anni che non li vedo, mentre un ascolto ai due album usciti nella seconda metà degli anni 2000 cercavo sempre il modo di darlo, per una sorta di affetto verso la band.
Comunque siamo nel 2012 e i Tarm sono pronti a dare alle stampe il settimo disco in diciotto anni di carriera.
La serata del Vinile viene promulgata via manifesti e social network come un secret show con capienza limitata a 150 ingressi, una sorta di prova generale dove ascoltare in anteprima i brani del nuovo disco “Il giardino dei fantasmi” prima di intraprendere il tour promozionale vero e proprio.
Mi piace l’idea di organizzare un concerto in un giorno ai più insignificante come il giovedì; in città funziona così, non tutti gli eventi sono dipendenti dal venerdì e dal sabato.
Ovvio che però i concerti dovrebbero iniziare e finire ad un’ora umana: solo così avrebbero senso i concerti infrasettimanali.
Al Vinile l’atmosfera è attenta e curiosa e alle 23.00 la band sale sul palchetto del locale.
Partono con “Puoi dirlo a tutti”, brano tratto dal loro ultimo disco “Primitivi del futuro”,disco che ha segnato una virata stilistica verso ritmiche di stampo reggae.
Anche i brani del nuovo disco, ad un primo ascolto, sembrano mantenere un impronta lenta e in levare, con basso tondo e batteria che sembrano usciti da un disco dub.
Canzoni non molto immediate e sicuramente distanti anni luce dalle prime cose del gruppo, canzoni che magari richiederanno più di un ascolto su disco per essere apprezzate in maniera compiuta.
Dopo un’oretta dedicata al nuovo album, parte la scaletta che ripercorre i pezzi noti della band, intramezzata da qualche chicca (tipo “Un altro inverno a Pordenone”) che riscuotono l’entusiasmo dei presenti.
Uno show bello pieno di due ore e alle 01.00 precise il concerto termina, esco per primo dal Vinile e inizia a piovere. La statale è deserta.

STADI D'ITALIA



Un commento per ogni stadio di Serie A.

Atalanta
Non male. Stadio inserito nel contesto cittadino, altrove magari lo avrebbero già sostituito velocemente costruendo un bel 40.000 posti vicino allo svincolo della tangenziale, come capita a molte cattedrali nel deserto.
Ad ogni modo, per migliorarlo ulteriormente, io toglierei i vetri divisori con gli spalti (come  succede nei paesi civili) e oserei con togliere le panchine e inserirle nella parte inferiore della tribuna centrale, come l’esempio dello “Juventus Stadium” insegna.

Bologna
Pur avendo la pista e pur avendo 35.000 posti a sedere di cui almeno 5.000 inutili, è uno stadio con il suo fascino architettonico.
Saranno gli archi esterni e la torre centrale, non so, comunque ha un suo perché.

Cagliari
Dopo il giusto abbandono dello sconcio Sant’Elia (con le tribune davanti prefabbricate davanti a quelle precedenti, robe da Italia) attendo di capire meglio com’è questo “Is Arenas”.
Dalle foto e dalle prime gare disputate non sembra male,seppur limitante nella sua struttura “in tubi”.
Vedremo.

Catania
Non mi è mai piaciuto particolarmente il “Massimino”. Diciamo che mi appare confusionario, e la rete da pescatore posta a protezione del settore ospiti non aiuta certo ad elevare Catania come nuova capitale del buon gusto.
La pista penalizza un po’ tutto l’insieme, che non sarebbe male con le tribune circolari, ma che comunque risultano parecchio distanti dal campo.

Chievo 
Ristrutturato per Italia ‘90, appare tutto sommato di un’altra sostanza rispetto ad altri scempi dell’epoca.
Forse un po’ troppo grande per Verona, tralasciando il Chievo che potrebbe giocare anche al Patronato (parlo proprio dell’Hellas, anche se numeri importanti i butei li fanno sempre), forse l’anello più elevato risulta di troppo.

Fiorentina
Il Franchi soffre un po’ la forma da “Circo Massimo” e con una forma rettangolare sicuramente le curve ci avrebbero guadagnato non poco.
Appello per togliere i vetri divisori, inutili e scomodi.

Genoa - Sampdoria
Marassi sale sicuramente sul podio dei primi tre per struttura e ambiente.
Forse l’unico difettuccio sta nella continuazione delle tribune centrali cinque/sei metri oltre la bandierina del calcio d’angolo.

Inter – Milan
San Siro è sempre San Siro.
Storia e grandezza. Negli ultimi tempi parecchi vuoti non belli da vedere (certo che le Società milanesi avrebbero il dovere morale di abbassare il prezzo dei biglietti) e quelle impalcature, che non capisco bene a cosa servono, poste tra il primo e il secondo anello delle curve.

Juventus
Qua non c’è nulla fuori posto: capienza giusta, vetri divisori non presenti, vicinanza degli spalti.
Speriamo che questo stadio rappresenti l’inizio di nuova era che si contraddistingua per la serietà e lo studio dei progetti, quando in Italia si è sempre storicamente agito al contrario in ambito stadi.

Lazio - Roma
L’Olimpico ha la pista, è vero, però non significa non sia uno stadio fascinoso, che se pieno risulta sicuramente di grande effetto.

Napoli
Mi sembra un po’ invecchiato il San Paolo.
Stadio di fascino, certo, però la pista forse appare veramente di troppo.

Palermo
Anche qua la forma “Circo Massimo” penalizza le curve.

Parma
Un bel stadio il “Tardini”, su misura per una realtà come Parma.
Da prendere come esempio per le realtà con un bacino d’utenza simile.

Pescara
La pista azzurra è un pugno sull’occhio.
Nel complesso stadio fatto male, tribune distanti e con vetri divisori sostanzialmente inutili.

Siena
Un obbrobrio.
Il problema è che le varie tribune prefabbricate non sono state integrate in una struttura coerente, bensì aggiunte a caso.
Un pezzo qua e un pezzetto là.
La curva di casa vicina al campo, l’altra distante. Bah.

Torino
Per essere di recente ristrutturazione forse si poteva fare un po’ meglio.
Non capisco le curve così distanti con venti metri buoni di prato a distanziarle dal campo di gioco.
Paradossalmente le foto del vecchio Comunale pieno (stadio sul quale è stato rifatto ex novo l’Olimpico) in un derby qualunque, mi comunicano un senso di “pericolosità” che nella piattezza dell’Olimpico attuale sarà difficile ritrovare.
Altri tempi.

Udinese
Anche i Pozzo han capito che il “Friuli” non andava bene per una realtà come Udine, dove è vero che la squadra va bene da anni, però lo stadio da 40.000 posti lo riempi tre volte all’anno se va bene.
Tra poco dovrebbero partire i lavori per metterci le mani, ridurre un po’ la capienza e avvicinare le tribune.
Possibile che nessuno ci avesse pensato in fase di progettazione?

NORTHERN UPROAR - TRATTORIA ALTROQUANDO - ZERO BRANCO (TV) - 3/11/2012



E' autunno inoltrato e i concerti estivi hanno lasciato posto da un mesetto abbondante ai live al chiuso.
Nello specifico questo dei Northern Uproar si tiene presso la Trattoria Altroquando di Zero Branco, ambiente raccolto e casalingo nel bel mezzo delle provincie di Treviso, Padova e Venezia.
Chi si ricorda della band mancuniana?
Beh probabilmente qualche fan del Britpop minore anni novanta; fecero uscire un paio di album notevoli sulla scia dei primi Oasis proprio nella seconda metà dei 90's e poi sparirono nel nulla.
Peccato.
Succede spesso nel Regno Unito, dove band apprezzabili durano l'arco di un paio d'anni e poi vengono inghiottiti dallo stesso sistema che aveva provveduto a darli un minimo di notorietà.
Cambiano le mode di stagione e arrivano altre band che faranno esattamente lo stesso percorso dei Northern Uproar.
Ad ogni modo nel 2007 i nostri si riformarono e pubblicarono un nuovo disco passato sotto silenzio praticamente ovunque; da allora sono attivi in maniera sporadica con qualche live all'anno come qualsiasi band da cantina insegna.
La serata alla Trattoria Altroquando me l'ero segnata sul taccuino da un bel pezzo e non volevo perdermela per nessuna ragione.
Tre date italiane in acustico per gli inglesi, un mini tour decisamente di culto, con la band ridotta a un duo che alle 23.30 prende in mano le chitarre acustiche e per mezz'ora buona intona canzoni in cui risaltano a pieno melodie brit spolpate dall'elettricità dei dischi.
Il cantante ha la stazza più del magazziniere che del cantante rock: capelli corti, un bel pò di chili sovrappeso, abiti informali e un paio di adidas ai piedi.
Odio lo stereotipo di musicista rock tutto capelli lunghi/tatuaggi e i Northern Uproar sembrano rispondere a questa mia esigenza.
Non gliene frega nulla di apparire per quello che non sono: sono solamente due lads inglesi che pigliano la chitarra e cantano una decina di canzoni che parlano di vita di periferia e aspettative.
Che poi lo sappiano fare ancora particolarmente bene e che le canzoni suonino splendidamente a quindici anni di distanza, beh, questo non fa altro che aggiungere un bel pò di rimpianto per quello che poteva essere e non è stato.