I Buzzcocks nella Bassa Veronese: bello.
Una zona che mi piace, distese di campi e risaie, strade
larghe tre metri, un paesetto ogni tanto che ti chiedi dove vanno i ragazzi al
sabato sera se non andare al bar di ritrovo.
E’ proprio nella piazza di uno di questi paesetti che si
incontrano nelle vicinanze di Legnago (San Vito) che si sono esibiti i
Buzzcocks.
Favoloso: ti giri a sinistra e c’è la chiesa e il mini
centro del paese, mentre di fronte hai una delle band più significative del
punk rock tutto, ma oserei dire anche di quella cosa chiamata rock.
L’occasione è di quelle grosse ed organizziamo una
macchinata di cinque elementi.
L’attesa scorre via liscia annaffiata da diverse birre e
qualche discussione sul calciomercato che verrà.
A mezzanotte finalmente i quattro salgono sul palco per un
set che personalmente mi aspetto esplosivo, visto l’affetto musicale che provo
verso i mancuniani.
La prima volta li vidi dieci anni giusti fa alla Gabbia di
Bassano del Grappa: ubriachissimi, con Pete Shelley che ogni 3 x 2 si girava a
fare l’occhiolino a due tardone a lato del palco e con bottiglie di spumante
sopra gli ampli.
Questa volta mi sembrano più sul pezzo e macinano che è un
piacere: “Boredom”, “Fast cars” e “I don’t mind” il trittico iniziale che non
lascia scampo.
Volumi altissimi, energia che tra il pubblico (almeno per
chi è coinvolto) si potrebbe tagliare a fette.
Dell’ultimo album “Flat Pack Philosophy”, uscito oramai nel
2006, non eseguono neanche un brano, privilegiando una scaletta che risulta
essere praticamente un best of dell’intera produzione; evidentemente i
Buzzcocks hanno capito che dopo trentacinque anni dalla fondazione possono
permettersi di suonare in giro senza dipendere dal meccanismo “album – tour di
supporto”, anche se comunque un nuovo album verrebbe senz’altro accolto con
gioia da chi li segue come il sottoscritto.
Da segnalare un capitombolo che vede coinvolto il
chitarrista Steve Diggle che ad un certo punto inciampa su un filo cadendo alla
grande per terra e suscitando un applauso di viva simpatia da parte dei
presenti.
A metà spezzano con le lunghe suite quasi meccaniche di “Moving
away from the pulsbeat” e “Nothing’s left”, in cui ne approfitto per fare circa
un litro di piscio in mezzo ad un campo.
Uno sguardo ai quattro: Pete Shelley ha addosso una camicia
a maniche corte (già vista in qualche foto abbastanza recente), che nella
grafica sembra richiamare dei concetti di grafica postmodernista a cui i
Buzzcocks dedicarono parecchia attenzione nella prima fase di carriera
(1976/1981) per quanto riguarda le copertine dei dischi e le grafiche in
generale: la voce sembra ancora quella dei tempi d’oro e questo basta.
Steve Diggle è il mod del gruppo: vestito bene, pulito, elegante,
Union Jack nell’amplificatore con sopra disegnato il simbolo della pace.
Gli altri due (bassista e batterista) mi sembrano belli in
forma, fanno il loro e anche visivamente contribuiscono alla buona riuscita
dell’insieme.
Al termine della prima fase la doppietta “Promises” – “What
do i get” ti lascia senza fiato.
Dopo una breve pausa, il finale è affidato a “Harmony in my
head”, “Ever fallen in love” e “Oh shit”, roba da restarci sotto.
Giusto dieci anni fa avevo il Ciao e sul casco avevo scritto
con l’adesivo “Oh shit” in omaggio ai grandi Buzzcocks.
Il tempo passa veloce, però se sai che ci sono in giro
canzoni come quelle dei Buzzcocks e soprattutto hai modo di vederli ancora
calcare il palco, non puoi che tirare una conclusione positiva.
Nessun commento:
Posta un commento