BUZZCOCKS - NEW AGE - RONCADE (TV) - 29/04/2016



Settimana strana, raffreddore, malesseri di stagione, mezza febbre: io, comunque, è già dal lunedì che ho in testa il concerto dei Buzzcocks al New Age.
Mi riascolto il loro ultimo album, l'ottimo "The Way" del 2014, e penso che ultimamente sto prendendo una bella media: terza volta che li vedo negli ultimi quattro anni. Beh, a dire il vero mi piacerebbe vederli anche ogni sei mesi, però tocca accontentarsi di quello che passa il convento.
Mi bevo una bella bionda media col mio socio e quando i Buzzcocks salgono sul palco sono contento come un bambino.
Partono con "Boredom", caratterizzata dal suo classico assolino stupido e alla fine ci attaccano subito il basso di "Fast Cars", primo pezzo di quel grande album che è "Another Music in a Different Kitchen".
Io sono davanti a Steve Diggle, il mitico Steve che non sta fermo un attimo e sembra un ragazzino di sessant'anni con una sacco di vitalità da spendere, mentre Pete Shelley sembra un attimo più sulle sue.
Fanno "I Don't Mind" e tutti a fare il coro e poi sorprendono inserendo "Totally from the Heart" da "All Set" del 1996, quasi un pezzo di culto.
La lunga suite kraut di "Moving Away from the Pulsebeat" è un mantra circolare che non ti fa stare fermo un secondo, sentita adesso sembra quasi un anticipazione danzereccia di quella che diventerà Manchester alla fine degli '80 con l'Hacienda e l'indie dance.
Mi salgono dei flash, tipo il racconto intitolato "Pete Shelley" su una raccolta curata da Nick Hornby, che parla di Inghilterra fine '70, adolescenti con gli ormoni in esplosione che ascoltano i Buzzcocks e gli Adverts, e Pete Shelley ora è proprio davanti a me e questi sono i Buzzcocks.
"Promises" è una delle mie canzoni preferite di sempre, il testo, i coretti; "Noise Annoys" mi ricorda l'autunno delle superiori, quando tornavo da scuola, mettevo su "Singles Going Steady" e mi stendevo sul letto ad ascoltarlo, ottobre/novembre.
Insomma, i Buzzcocks sono un pezzo di cuore, ma questo l'ho sempre saputo. Per me hanno sempre rappresentato qualcosa di più di una semplice band di cui ti piacciono le canzoni: il look, i testi, le melodie, le grafiche, tutto eccezionale.
Chiudono con la bomba punk '76 "Time's Up", prima di rientrare e stendere tutti con "What Do I Get/Orgasm Addict/Ever Fallen in Love/Harmony in My Head".
Alla fine penso che mi piacerebbe andare anche il giorno dopo a Cervia e poi continuare a seguirli lungo tutto il tour europeo: torno a casa e mi addormento col sorriso.

PUNKY REGGAE PARTY

La punky reggae connection fu una questione fondamentalmente londinese: fu possibile in quanto era ben presente e radicata in città una comunità giamaicana sin dai primi anni '50, principalmente in quartieri come Brixton e Ladbrooke Grove.
La musica giamaicana aveva già attecchito in Inghilterra a partire dagli anni '60, con Mods e Skinheads inglesi che fecero di ska, rocksteady e original reggae la colonna sonora del loro total look.
Parliamo quindi di una situazione giovanile generalmente ben ricettiva verso i suoni dell'isola, e così fu anche nella primissima seconda metà degli anni '70.
Dalla Giamaica usciva quello che verrà definito Roots Reggae, caratterizzato da altre tematiche rispetto allo status quo di ska/rocksteady/reggae: si inizia a parlare di Jah, inizia l'epopea Rastafariana, si parla di situazione sociale, insomma una musica che va a configurarsi come "militante".
Un po' quello che i ragazzi bianchi stanno facendo a modo loro a Londra con i primi vagiti punk: i prime movers come Clash e Pistols è gente che la materia giamaicana la conosce bene, per averla imparata in strada.
Don Letts, dj anglo giamaicano, suona dischi dub e reggae tra un set punk e l'altro al Roxy Club di Covent Garden: "Non c'erano dischi punk nostrani da metter sul piatto, perchè dovevano ancora essere incisi, così mettevo dub reggae intervellato ogni tanto da MC5, Stooges, New York Dolls e Ramones".
Un buon esempio dei pezzi suonati da Don Letts in quelle storiche serate si possono ritrovare nella compilation da lui curata, "Dread meets Punk Rockers Uptown".
Intanto arriva il fatidico 1977: nel primo album i Clash rifanno "Police & Thieves" di Junior Murvin: la suonano a modo loro, più rude ed elettrica rispetto alla contemporanea versione originale.
E' il primo esempio musicale di punk reggae.
Bob Marley nel 1977 si trova in città e scrive "Punky Reggae Party", lato b di Jamming, gran pezzo celebrativo di quello che sta accadendo:
"Wailers still be there,
The Jam, The Damned, The Clash
Wailers still be there
Dr. Feelgood too, ooh"
In un intervista dice: "E' diverso ma mi piace. I punk sono i reietti della società. Così come i rasta. Anche loro difendono ciò che noi difendiamo".
L'esempio dei Clash viene seguito in ambito punk qualche mese dopo dai Ruts, i quali registrarono un paio di pezzi reggae micidiali e dagli Stiff Little Fingers di "Johnny Was".
I Pil di John Lydon furono pesantemente influenzati dal dub e tracce di reggae si possono rintracciare anche nella prima fresca new wave di Elvis Costello, Joe Jackson e Police.
Fu una cosa praticamente univoca, nel senso che gli artisti bianchi britannici ne furono influenzati, i gruppi reggae inglesi invece non particolarmente (parlo sempre a livello di suono).
Poi arrivo la Two Tone, con il recupero sonoro e stilistico dello ska, ma quella è un altra storia.
Una "Punky Reggae Compilation" io la farei così:
- Clash - Police & Thieves
- Clash - White Man in Hammersmith
- Clash - Guns of Brixton
- Stranglers - Peaches
- Stiff Little Fingers - Johhny Was
- Ruts - Jah War
- Members - Romance
- Joe Jackson - Sunday papers
- Elvis Costello - Watching the Detectives
 - Police - Roxanne
Vi consiglio il bel libro di Don Letts "Punk e Dread", la compilation da lui curata di cui sopra e "Punky Reggae Selecta".


JOE JACKSON @ TEATRO CORSO - MESTRE - 04/03/2016



Nel mio immaginario la figura di Joe Jackson è legata a doppio filo con quella di Pier Vittorio Tondelli: lo scrittore emiliano, infatti, ne scrisse sia su "Rimini" che su "Camere Separate", sul primo addirittura citando una sua frase in apertura di libro.
Erano gli anni '80, e l'artista inglese era sicuramente una figura di spicco nel panorama musicale di allora, forte di diversi ottimi album disclocati nel periodo 1979/1986.
Fa ora tappa a Mestre, in un Teatro Corso gremito, per presentare la sua ultima fatica, "Fast Forward", eccellente disco che sembra restituire almeno un pò della magia dei tempi d'oro.
La primissima parte di concerto lo vede impegnato a rileggere, in solitaria alla tastiera, pagine importanti come "It's different for girls", "Hometown", "Be my number two", oltre alla titletrack "Fast Forward"; a partire dalla classica "Is she really going out with him?" viene raggiunto sul palco dai compagni di band (chitarra/basso/batteria) e insieme iniziano a macinare una scaletta che non fa prigionieri.
Ci sono i sapori funky 80's di "You can't get what you want", il reggae punk '79 di "Sunday papers", la pulizia pop rock di "Junkie diva" e "A little smile", la New York connection di "Another World", il tutto eseguito con una perfezione stilistica da campioni, con il piano/tastiera che conferisce una certa raffinatezza globale all'insieme.
Anche a livello estetico il quartetto è un bel vedere: vestìti bene, sobri, zero pacchianate, giusto una sciarpa biancoblu del Portsmouth annodata alla tastiera che fà molto passione working class inglese.
Graham Maby, il bassista storico di Jackson con lui dai primissimi tempi, regge la scena in maniera impeccabile sia a livello ritmico che visivo.
Molto divertenti inoltre i siparietti che Joe Jackson concede tra i brani, qualche numero di caro vecchio british humour che me lo rendono affettivamente simpatico.
C'è spazio anche per un omaggio a David Bowie con "Scary Monsters (and super creeps)": noto anche la scritta "Bowie" fatta sul nastro adesivo su un cassone nelle retrovie del palco.
L'unico piccolo neo, se vogliamo, è una rilettura lenta e un pò spenta di "Steppin' Out", praticamente il suo brano più famoso direttamente dal capolavoro "Night & Day" del 1982: l'esecuzione original penso avrebbe incontrato maggiormente i consensi del pubblico, ma tutto sommato è solo un piccolo cavillo in una riuscitissima serata mestrina di inizio marzo 2016.

INTERVISTA A PETE SHELLEY



I Buzzcocks si sono riformati nel 1989, dopo otto anni: non riuscivi a stare lontano dal gruppo?

Le canzoni che abbiamo registrato quand'eravamo giovani significano molto per alcuni. Da quando mi collego su Internet, ci sono tante persone che mi scrivono, mi raccontano la loro vita, quanto sono stati importanti i Buzzcocks. Avevo completamente voltato le spalle a quella avventura, avevo lasciato Manchester per Londra. Steve Diggle, il nostro chitarrista, ogni tanto mi proponeva di riunirci. Gli dicevo "D'accordo, ma a una sola condizione: che tu riesca a mettere in piedi il gruppo con gli stessi membri di quando ci siamo separati". Non era un grosso rischio, perché sapevo che il bassista Steve Garvey aveva messo su famiglia negli Stati Uniti, il batterista John Maher si occupava solo dei dragsters che lui stesso costruiva. Non avevo alcun interesse a riaprire la questione, mi sembrava triste e inutile. Poi sei anni fa Steve Diggle ha forzato la mano riformando da solo il gruppo. Si è sparsa la voce che i Buzzcocks sarebbero ritornati, dei promoters americani erano disponibili a investire una fortuna per organizzare un tour: tre settimane a condizioni molto favorevoli. Uno dopo l'altro abbiamo messo da parte i rancori e siamo ripartiti insieme. Comunque non mi mancava.

Avevi rinunciato alla musica?

Provavo con la techno... Deluso dall'avventura Buzzcocks e dall'insuccesso dei miei album solisti, ero tentato di abbandonare la musica. Ma non so fare nient'altro. Tutti gli altri lavori necessitano che ci si alzi presto e questo è al di sopra dei miei mezzi. Non ho mai sopportato una vita organizzata, seguo solo il mio piacere. E certe volte anche la musica diventa una routine... persino nel momento in cui i Buzzcocks erano sulla cresta dell'onda mia madre mi chiedeva "Quando troverai un vero lavoro?". Alla fine ha capito che ero un vero artista. Una stronzata o no? (ride). Mi considero come un ballerino: il piacere di creare è fisico, mi sento diventare leggero e grazioso. Cantare mi dà una gioia immensa, sono triste per la gente che si limita soltanto ad ascoltare la musica. Continuerei a cantare anche solo per me stesso.

Molti gruppi influenzati dai Buzzcocks hanno raggiunto il successo. Provi gelosia?

A metà degli anni '80 sentivo che l'unico motivo per cui Steve Diggle voleva riformare il gruppo era di rimettere a posto le cose con i nostri eredi. Per me il fatto di sapere che le nostre canzoni erano state importanti per quei ragazzi mi bastava. È nella logica delle cose, sei sotto i riflettori e, in un attimo, devi lasciare il tuo posto. L'ombra non mi ha mai fatto paura. Perché ero convinto che la gente sapesse che noi eravamo i primi. La gloria è un bell'affare, ma si fa fatica! Non avevo neanche il tempo di apprezzarla, perché la mia vita era solo eccesso e follia.

Nel 1981 non c'era altra soluzione che lasciare il gruppo per ritrovare la normalità?


Non potevo più stare al gioco. Mi ricordo di aver visto un filmato su un concerto degli U2 in uno stadio italiano. Su degli schermi giganti passavano dei visi scelti tra la folla: al gruppo non interessava chi fosse venuto a sentirli. Mentre per me era il contrario. Più le sale erano grandi, più il pubblico era numeroso, più andavo in depressione. Avevo l'idea naive di poter suonare solo davanti al pubblico che amava la nostra musica, mai davanti a quelli che definisco 'turisti' nel senso che vengono al concerto per fare due chiacchiere o bere qualcosa. Per me il pubblico doveva essere concentrato, capire perfettamente ciò che cantavamo. Mi rifiutavo di entrare nella società dello spettacolo. Quando il Papa a Pasqua dà la benedizione, affacciato al suo balcone, quanti sono lì per il rito religioso, quanti soltanto per fare delle foto e passeggiare per Roma? Se fossi lui, preferirei rivolgermi soltanto ai credenti.

Ti piaceva non stare al gioco?

A scuola ero considerato un ragazzo adorabile, mentre passavo il tempo a cercare gli errori nel sistema. Non ero mai incazzato, ma in contrapposizione: lo scopo era di restare nella legalità cercando di trarre il maggior vantaggio possibile dal sistema. Quando è nato il punk mi sono sentito subito a mio agio. Col mio gruppo affittavamo dal pastore di Leigh (tra Manchester e Liverpool) la sua chiesa per organizzare dei concerti il sabato sera. Anche a scuola andavo a trovare i miei professori per organizzare i miei corsi, cambiare gli orari, in modo che alla fine avevo quattro giorni liberi a settimana. Facevo credere loro che sarei andato a studiare in biblioteca, in realtà passavo il tempo in una sala giochi a fumare e parlare di musica.

La musica quando è diventata importante?

Natale 1968. Mio fratello ebbe in regalo un giradischi. Con i ragazzi della mia età, profittavamo dell'assenza dei genitori per organizzare delle feste ascoltando dischi e bevendo sidro. La musica allora divenne il mio legame con gli altri. Vicino a casa, c'era un negozio di dischi in cui passavo il tempo a comprare o scambiare i singoli. Il 4 gennaio 1970 presi in mano la chitarra per la prima volta. Mi ricordo la data esatta perché la segnai sul mio diario. "Oggi piove, mi annoio. Voglio provare a suonare la chitarra di mio fratello".

Sognavi di abbandonare la tua famiglia?

Non ero abbastanza violento per prendere una decione simile. Leggevo i libri nella mia stanza, saggio come un'immaginetta. Era con mio fratello che si incazzavano per delle storiacce. Io ero felice, non soffrivo di claustrofobia per quella piccola vita. Il mio sogno era di fare una cassetta con una mia canzone, andare in una cittadina turistica sul mare dove, per pochi soldi, potevi stampare un flexi disc. Per anni sono andato avanti aspettando il giorno in cui sarei diventato un musicista. Del resto cosa potevo fare con il mio diploma di elettricista? aggiustare televisioni tutto il giorno? Piuttosto la morte. Per respingere ancora una volta la vita attiva, iniziai altri studi: filosofia e letteratura europea comparata. Era la mia vendetta su tutti quegli anni di scuola in cui mi era vietato studiare l'arte o la letteratura a favore della matematica e delle scienze.

All'epoca hai lasciato la famiglia per andare a studiare a Bolton vicino Manchester. Come hai vissuto la nuova esperienza di libertà?

A Bolton avevo una stanza in una grande casa tenuta dal sindacato degli studenti. La mia ragazza poteva stare con me, ho vissuto tutte le esperienze tipiche degli studenti. Non si va all'università per studiare, ma per scoprire la vita e i suoi eccessi (ride). In quella casa c'era uno scantinato dove avevo installato amplificatore e chitarra. Mi accontentavo di scrivere delle canzoni pensando che le case discografiche fossero delle fortezze inespugnabili. Mi sentivo condannato a restare ai margini perché mi rifiutavo di suonare nei bar: chi sarebbe riuscito a bere birra ascoltando le cover di White Light White Heat o dei Roxy Music?
Nel '75 lessi un annuncio nella bacheca "Si cerca musicisti per riprendere Sister Ray dei Velvet". Ho telefonato e ho incontrato quello strano tipo che conoscevo di vista, si chiamava Howard Trafford. All'epoca non si faceva ancora chiamare Howard Devoto. Ero felice di aver incontrato qualcuno che non si lasciava andare a lunghi assolo, che non voleva rifare Smoke On The Water. Passavamo i fine settimana insieme a parlare del nostro futuro e ad ascoltare la sua incredibile collezione di dischi pirata di Dylan. La sua stanza era piena di libri: Burroughs, Proust, Camus, che leggevamo ascoltando gli Stooges. Un giorno ci siamo tinti i capelli di rosso, ridicolo! Da Pete McNeish sono diventato Pete Shelley, perché un giorno avevo chiesto a mia madre come mi avrebbe chiamato se fossi stata una femmina. Per gli altri avevo scelto questo nome in omaggio al poeta. Era così ma in un modo contorto. Mia madre aveva scelto Shelley in omaggio all'attrice Shelley Winters che, a sua volta, aveva cambiato il nome da Shirley in Shelley per il poeta.

Come vi siete accorti che stava succedendo qualcosa attorno ai Pistols?

Quello che ci ha immediatamente attratto era il fatto che riprendevano gli Stooges come noi. Era necessario che le cose cambiassero, anche i gruppi heavy metal suonavano troppo lentamente per noi. Howard ed io pensavamo di essere gli unici frustrati a Manchester, ma quando abbiamo invitato i Sex Pistols abbiamo scoperto un sacco di gente come noi. Eravamo rassegnati alla solitudine, ai nostri strani dischi, grazie al punk abbiamo scoperto altri abitanti sul nostro piccolo pianeta. Avevo l'impressione di essere uscito di prigione, di poter incontrare gente. Morrissey era sempre lì in prima fila, perché fra lui e McLaren c'era la connessione New York Dolls: il primo si occupava del loro fan club inglese, il secondo era stato il loro manager.

Come si vestivano i primi punk di Manchester lontano dalle boutique di moda a Londra?

Un giorno sono andato in una boutique chic di Manchester con Howard, che si è comprato un pantalone a strisce blu e rosse. Il sarto voleva sapere quanto doveva accorciarli. Ma Howard se li fece soltanto stringere. Il poveretto era stupefatto di dover trasformare dei pantaloni a zampa d'elefante in pantaloni a tubo. Nel '76 mi sono bucato le orecchie, ci ho infilato delle spille da balia e una lametta. Non puoi immaginare l'orrore e lo scandalo che ho suscitato in città. Bisognava leggere a fondo la stampa musicale per sapere dell'esistenza del punk. Noi eravamo felici: gli imbecilli non ne avevano ancora sentito parlare e noi avevamo l'impressione di essere una grande famiglia. Non avevo mai avuto tanti amici sparsi nel paese. Il movimento cominciava a diffondersi in tutte le città: Liverpool, Bristol, Birmingham, Sheffield... A poco a poco ci siamo organizzati. A Manchester c'era un club omosessuale gestito da un travestito, Fof Foo Lamar. Nel weekend i punk cominciarono a frequentarlo, perché solo Foo Foo metteva Bowie e tollerava dei ragazzi truccati e bizzarri. Anche a Londra i primi club frequentati dai punk erano gay. L'ambiente era molto giovane, tollerante, glamour, decadente e sofisticato. La violenza è venuta più tardi, quando il grande pubblico si è impaurito e ha cominciato ad attaccare i punk che rappresentavano la degenerazione.

C'era rivalità con Londra?

Mai. Quando McLaren ha organizzato il suo festival "Scream on the green" - il primo concerto dei Clash - ci ha invitati. Un mese dopo ci ha chiamati al 100 Club - siamo stati l'ultimo gruppo punk a suonarci. In seguito abbiamo partecipato all'Anarchy Tour con i Clash e i Pistols, al posto dei Damned. Era eccitante andare a Londra, incontrare gente nuova come Siouxsie Sioux. Avevamo la sensazione di essere nell'occhio del ciclone, di partecipare ad un movimento importante. Bastava muovere il mignolo per scatenare la tempesta. Nessuno aveva osato fino a quel punto: si pensava che fosse vietato dalla legge di suonare così veloce e così male. Noi abbiamo fatto scoprire che tutto era permesso: un invito all'anarchia, all'azione. Adoravamo manipolare la stampa, la gente. Era l'idea principale del punk: un gioco di ruolo. Un po' come quelli che hanno iniziato a gettarsi dai ponti con un elastico attaccato al piede. All'inizio sono stati presi per pazzi ma a poco a poco la gente ha capito che non era solo un idiota gusto del rischio. Certi hanno visto il lato creativo dei punk, che inventavano uno stile, una musica.

Come hai capito che il movimento punk stava alla fine?

È durato fino al '77, poi è stato diverso. I gruppi hanno cominciato a firmare con delle multinazionali, a rientrare nei ranghi. È per questo che abbiamo fatto il nostro primo singolo, Spiral Scratch, da soli. Nessuno ci aveva ancora provato, tutti pensavano che solo le major avessero il diritto di far uscire i dischi. Ma ci si è resi conto subito che era facile. Tutti ci trattavano da folli, dicevano che saremmo rimasti con tutti i dischi sul groppone. Abbiamo fatto una colletta fra i nostri amici e i nostri genitori, abbiamo affittato uno studio per una giornata, registrato quattro pezzi. Abbiamo disegnato la copertina e stampato il disco in mille copie. Il giorno in cui è uscito ho comprato due bottiglie di vino per celebrare quel momento storico, pregando che ne vendesse almeno la metà. Nel giro di una settimana le mille copie erano state vendute.

Per il vostro primo album Another Music In A Different Kitchen (1978) avete firmato con una major. La leggenda vuole che Devoto abbia abbandonato il gruppo perché considerava questo gesto come una sottomissione.

Abbiamo scelto quell'etichetta perché conoscevamo Andrew Lauder, che aveva sotto contratto Hawkwind, Can, Neu e, in seguito, Stone Roses... Quando ha firmato con noi, non ci ha detto "dovete cambiare questo o quello". Non è per questo che Devoto se n'è andato nel '77. È stato per continuare i suoi studi che aveva abbandonato da tre anni. Non aveva voglia di rovinare tutto a tre mesi dagli esami finali per i Buzzcocks. Ha scelto lo studio, si è laureato e poi ha formato i Magazine. Ma siamo ancora amici.

Eri felice di essere diventato il solo leader del gruppo?

Non ho mai fatto schioccare la frusta per avere il gruppo in mano. Tutte le idee erano buone, le mie come quelle degli altri. Mi piaceva stare sotto i riflettori. Mi sembrava di essere il direttore d'orchestra e in più scrivevo le parole che erano la cosa che contava di più per me. Riuscivo ad esprimermi nei testi con più precisione e onestà che nella vita di tutti i giorni. Ripetere una frase dieci volte di seguito può dare un peso impensato a delle parole semplici. Tutti i messaggi che dovevo mandare alla gente li nascondevo dietro le canzoni. La persona a cui si riferiva il messaggio capiva ed io mi sentivo bene. Era il solo modo di esprimere la collera, il rancore perché ero incapace di dire alle persone cosa pensavo veramente.

Un altro tratto affascinante dei tuoi testi era quel modo di scrivere indifferentemente nei panni di un uomo e di una donna.

Morrissey ha trovato questo affascinante, ci ha costruito sopra tutta la sua carriera. Se scrivevo in quel modo, è perché la mia sessualità era piuttosto ambigua. Siccome sono bisessuale posso scrivere da un punto di vista femminile o maschile, so cosa gli uni e le altre provano. Le mie canzoni potevano quindi riguardare tutti, mi serviva una grande disciplina per gestire questo stile asessuato. Nessuno all'epoca scriveva di cose così personali. Passavo la mia vita a innamorarmi di persone sbagliate - a 40 anni non sono ancora cambiato.

Le tue canzoni sono diventate mano a mano più oscure e turbate; stavi perdendo terreno?

Registravamo e andavamo in tour troppo. Questo ha accelerato il processo di distruzione che, comunque, era inevitabile. Non ero fatto per essere felice. Non avevo più un secondo per me e, quando potevo scappare, non riuscivo a distendermi. Le mie depressioni cominciavano a diventare un problema per il gruppo. Sempre di più mi rifiutavo di stare al gioco, di accettare il compromesso. Ero intrattabile, sconvolto. Ho cercato di farla finita prendendo un intero tubetto di barbiturici, ma la mattina dopo mi sono svegliato che ero un fiore (ride). Allora ho capito che era meglio essere un uomo sofferente che un rimbambito col sorriso stampato. Verso il '79-'80 prendevo continuamente acidi, credevo che fosse utile per farsi delle autoanalisi a colori, incontravo Dio, capivo il senso della vita e della morte (ride). In studio mi nascondevo sotto il tavolo di missaggio e ne uscivo fuori solo quando dovevo cantare, quando i miei incubi mi abbandonavano. Nell'ultima tournée con i Joy Division le mie notti erano insopportabili. Non credevo in niente, figuriamoci nei Buzzcocks. Avevo dipinto un pavimento dimenticando di lasciare lo spazio per uscire: mi trovavo nel fondo della stanza all'angolo senza saper più cosa fare. È per questo che ho lasciato il gruppo e iniziato una carriera solista con Homosapien (1982).

Come ti sentivi dopo la separazione?

Era come la fine di un rapporto d'amore. Avevo fatto di tutto per continuare ad amarci, ma la coppia non si è comportata come avevo immaginato. Litigavamo, non ci amavamo più: perché restare insieme? Ero triste ma, soprattutto, sollevato. Perché avevo trovato una nuova storia d'amore, passionale, con il mio primo album solista. Il gruppo non aveva detto tutto, aveva ancora delle potenzialità, ma i problemi umani, finanziari, i rapporti con la casa discografica, con il management diventavano troppo pesanti. Per anni avevamo registrato in continuazione, facendo uscire i dischi ogni sette otto mesi. Eravamo ad un punto morto per delle questioni amministrative. La casa discografica ci lasciava marcire ed io ero sconvolto che ci potesse trattare con tale leggerezza. Il male era fatto: erano riusciti ad abbassare il morale delle truppe. Non avevo scelta: dovevo uccidere il gruppo. Non potevo lasciare che si dissolvesse.

Dalla vostra separazione molti gruppi hanno rivendicato la vostra influenza. Era frustrante o al contrario ti dava conforto?

Quanche anno dopo la separazione il New Musical Express pubblicò un articolo retrospettivo sui Buzzcocks. Avevo l'impressione di leggere un'orazione funebre. Ho dovuto smettere di respirare per rendermi conto che ero ancora vivo. Noi non avevamo idea di fare una musica così importante. Ma presto mi sono accorto della nostra influenza sugli altri. Non si dirà mai abbastanza su quanto hanno preso gli Smiths da noi. Ma la riabilitazione sta andando avanti: con Elastica e compagnia viene ammessa la nostra importanza.
Ci siamo accontentati di passare la staffetta: l'abbiamo ricevuta da Bowie, dai Velvet, da Bryan Ferry e l'abbiamo passata a Morrissey o Supergrass... Lou Reed ha molte più ragioni di noi di essere furioso della sua discendenza. Che dei crimini commessi in suo nome.

di J.D. Beauvallet - Traduzione di Bianca Spezzano

DIAFRAMMA @ VINILE - ROSA' (VI) - 30/01/2016




Vero lusso saper di poter assistere annualmente o quasi ad una esibizione dei Diaframma in zona Veneto; la band di Federico Fiumani, infatti, è praticamente sempre "on tour” e la cosa, almeno dal sottoscritto, è accolta con gioia e aspettativa ogni volta che si avvicina un concerto.
Già intorno alle 22.45, quando sale sul palco Miss Xox, il Vinile è bello pieno e io ho in testa quella vecchia canzone di Iggy Pop, "Nightclubbing, we're nightclubbing, we're what's happening".
Miss Xox è una leggenda underground, mente del Great Complotto di Pordenone nei tardi '70 assieme ad Ado Scaini: Hitlerss, Andy Warhol Banana Technicolor, El Funeral de Kocis le sue medaglie al petto; insomma, un pezzo di storia.
Piace vederlo ancora in giro, con il suo quartetto propone un rock punk wave caustico e tagliente cantato, anzi, declamato in italiano, in cui è l'urgenza espressiva a farla da padrona a discapito di melodie o trame sonore orecchiabili praticamente assenti.
Un buon aperitivo in vista dei Diaframma, che intorno alla mezzanotte prendono posto sul palco.
La serata del Vinile è presentata come "Diaframma performing Siberia", il primo lp capolavoro della band fiorentina, ed è normale quindi che la scaletta si apra con le note dell'evocativa titletrack che spedisce subito tutti quanti dritti in orbita.
Si, lo so che questi non sono i Diaframma degli anni '80, però i pezzi scorrono via lo stesso che è una meraviglia: "Neogrigio", "Amsterdam", "Delorenzo", "Specchi d'Acqua"; i fraseggi di chitarra della Fender di Mr. Fiumani, in certi punti, sono sempre emozionanti, sia su disco che live. Poi lui, come ho già detto da queste parti, è uno che mi piace, ha dalla sua onestà, storia e un attitudine generale che fa lezione: scusate se è poco.
Eseguito per intero "Siberia", è l'epocale "Gennaio" ad aprire la seconda, sostanziosa, parte di concerto, in cui vengono prese in rassegna tutte (o quasi) le canzoni più significative della storia diaframmatica.
C'è "L'odore delle rose", "Diamante Grezzo", "Io ho te", "Labbra Blu", l'omaggio ai Television con "See no Evil".
Faccio prima a dire cosa mancherà al computo finale: "Tre Volte Lacrime", "Caldo" e "Blu Petrolio", oltre alla totale assenza di canzoni degli ultimi tempi; per il resto in due ore circa di concerto la band non si risparmierà affatto, sia sotto il profilo quantitativo, sia per l'energia generale profusa in un live che penso lasci pochi scontenti.
Sono quasi le due quando terminano le ultime note, piena notte, e le luci della Strada Statale Valsugana ci accolgono quando risaliamo da sottoterra. Splendida serata.

CALIBRO 35 @ VINILE - ROSA' (VI) - 03/12/2015


Concerto infrasettimanale di peso allo storico Vinile di Rosà; i Calibro 35, infatti, sono sicuramente uno dei nomi più caldi nel panorama alternative italiano, forti di una produzione discografica di immutata qualità dagli esordi ad oggi, confermata dall'ottimo "S.p.a.c.e." di fresca uscita.
Alle 23 circa la band sale sul palchetto con il club stipato in ogni ordine di posto, occorre farsi largo per ricavarsi uno spazio da cui poterli intravedere all'opera.
Parte un estratto vocale tratto da un film fantascientifico spaziale anni '60 e sotto i Calibro 35 iniziano a macinare il loro groove che per un ora abbondante alletterà i presenti.
Il quartetto alterna dilatazioni cosmico psichedeliche a travolgenti cavalcate rock jazz funk; uno stile sonoro ovviamente debitore di certa tradizione italiana (leggi Umiliani, Piccioni, Micalizzi) e in cui precisione di esecuzione e tecnica esecutiva la fanno da padrone.
Stiamo parlando di pezzi strumentali decisamente evocativi, che forse risalterebbero più compiutamente se accompagnati a qualche video proiettato sullo sfondo (un crossover tra film polizieschi e fantascientifici, visto che l'ultimo album va a parare proprio da quelle parti) un po' come vidi fare ai Julie's Haircut lo scorso autunno.
Parlano poco sul palco i nostri, anzi proprio non parlano proprio mai, lasciando spazio esclusivamente al ritmo, che coinvolge tutti.
Da segnalare la manciata di pezzi eseguiti assieme alla sezione fiati degli Ottone Pesante (band sperimentale tromba/trombone/batteria che ha aperto il concerto), in cui le melodie, in certi punti, sembravano avvicinarsi stranamente a certe cose degli Skatalites.

NICK CASH DEI 999 MI HA FATTO UNA CASSETTA



Nick Cash dei grandissimi 999 mi ha fatto una cassetta.
Ecco cosa mi ha messo:

Eddie Cochran – ’20 Flight Rock’
Sam The Sham And The Pharaohs – ‘Little Red Riding Hood’
Wilson Pickett – ‘Mustang Sally’
The Kinks – ‘Waterloo Sunset’
Iggy Pop And The Stooges – ‘Search And Destroy’
999 – ‘Gimme the World’
New York Dolls – ‘Personality Crisis’
Richard Hell and The Voidoids – ‘The Kid With The Replaceable Head’
Buddy Holly – 'Everyday’
Booker T and the MG’s – ‘Sour Dressing’
Johnny Cash – ‘Boy Named Sue’
Mutabaruka – ‘The System’
Gregory Isaacs – ‘Night Nurse’
Steel Pulse – ‘Handsworth Revolution’
Fats Domino – ‘The Walk’
Kilburn And The High Roads – ‘Rough Kids’
The Heartbreakers – ‘Pirate Love’
Lee Dorsey – ‘Holy Cow’
Ennio Morricone – ‘The Good The Bad And The Ugly’
Iggy Pop – ‘I Wanna Be Your Dog’

MORRISSEY @ HALA TIVOLI - LUBIANA - 10/10/2015


Morrissey a Lubiana è anche una scusa per farsi un giro oltreconfine e visitare per la prima volta la capitale europea più vicina al nordest.
La città è una sorpresa, bella, pulita e stilosa, e una birra media viene intorno ai due euro.
Il concerto si svolge all'Hala Tivoli, sorta di palazzetto sportivo polifunzionale nella prima periferia della città.
Non molti i presenti: la tribuna è piena per metà e nel parterre ci si starebbe anche belli larghi se non fosse che tutti vogliono accalcarsi vicino al palco.
Come a Padova un anno fa, prima del concerto Morrissey si trasforma in veejay selezionando una mezzoretta di video musicali e non proiettati nel telone bianco che copre il palco: scorrono così, tra le altre, le immagini di Ramones, New York Dolls, Bob & Marcia, Ike & Tina Turner.
Un buon accompagnamento in vista del concerto vero e proprio, che alle 21.00 ha inizio con uno dei pezzi a mio parere migliori dell'intera discografia del nostro, Suedehead, tratta dal primo album solista "Viva Hate".
La band dietro Moz è composta da cinque elementi: capelli corti, camicia bianca, buona immagine in generale; ai lati del palco, invece, ci sono due buttafuori pesantissimi con una faccia che ti raccomando che però stanno bene nel quadro e hanno il loro fascino, considerato anche che l'immaginario di Morrissey racconta spesso di questi tipi, gangs, pugili, ragazzi di strada.
Le scaletta pesca un po' da tutti i lavori discografici, con ampio spazio dato alle canzoni dell'ultimo album "World Peace is None of Your Business", davvero un buon lavoro.
Nella prima parte, degli Smiths fa praticamente la sola "Meat is Murder", con immagini terribili nello schermo di violenze sugli animali, poi nella fase finale spara "What She Said" e il gran finale con "The Queen is Dead".
Non so perché ne faccia sempre così poche, forse per il discorso di guardare avanti e non voltarsi indietro tipico degli artisti, comunque nessun problema, il concerto è bello comunque.
A livello tecnico i suoni sono perfetti e lui è in gran forma canora e non solo.
Un'ora e mezzo di grande show, poi fuori ci sono le luci, i locali e la pioggia di Lubiana ad attenderci.

MARKY RAMONE @ AMA FESTIVAL - ASOLO - 30/08/2015



Ennesima volta che vedo Marky Ramone dal vivo e la cosa non mi dispiace: a me frega niente delle polemiche sulla sua figura. Io so solo che Marky era uno dei Ramones, uno di loro. Ha suonato in buoni album e fatto un sacco di concerti. Punto. Il resto sono polemiche del cazzo, poi quando non ci sarà più neanche lui magari mancherà anche agli stessi che ora lo denigrano. Per me non bisogna guardare oltre la realtà dei fatti, farsi troppe pippe mentali.
Vai fuori con due amici, beviti tre medie bionde e fatti prendere dalla situazione; più di venti canzoni dei Ramones, tirate, precise; sei là e pensi che per te potrebbero andare avanti fino alle cinque di mattina e tu resteresti lì beato a cantarle tutte. Perché sai che è così, e intanto arriva un altro giro di birra e però il cantante che non sta fermo posato sull'asta in stile Joey ma si muove saltellando non ti piace proprio, vorresti più fedeltà all'originale. Magari non piace neanche a Marky, però se la fa andare bene.

PETER HOOK @ FIERA DELLA MUSICA - AZZANO DECIMO (PN) - 01/08/2015




La Fiera della Musica di Azzano Decimo (Pn) si conferma uno degli appuntamenti più interessanti dell'estate a nord-est, con nomi di qualità e una buona organizzazione generale.
L'anno scorso partecipai alla seratona “Manchester” con leggende del calibro di Buzzcocks/Fall/Inspiral Carpets, quest'anno una sorta di continuità è garantita dalla serata che vede protagonista Peter Hook, bassista in due tra le più importanti bands non solo di Manchester ma della storia della musica stessa: Joy Division e New Order.
Da qualche anno ha lasciato quest'ultimi per intraprendere il progetto “Peter Hook & The Light”, con cui sostanzialmente porta in giro una celebrazione di sé stesso e della musica da lui suonata dal 1976 in avanti.
Piove, ma la band non fa una grinza e sale sul palco, e anzi il fattore pioggia si rivelerà un alleato per la buona riuscita del concerto; si dice che a Manchester piova sempre, che la musica dei Joy Division è grigia come è grigio il tempo lassù, e allora comprendo che è questa la situazione ideale per godersi appieno lo spettacolo.
La scaletta risulterà composta da 1/3 New Order e 2/3 Joy Division.
“Love Vigilantes” fa un effetto strano con il vocione di Peter Hook: sembra che a cantarla ci sia un gruppo Oi/punk rock inglese, con il ritornello “I want to see my family, my wife and child waiting for me” che sembra confermare questo mio curioso collegamento.
“Age Of Consent”, la dance di “Bizarre love Triangle”, “True Faith” mi fanno capire che stasera il buon Pete non vuole risparmiarsi e vuole regalarci tutti i grandi classici senza dimenticarsene nessuno.
Pezzi da novanta come “Temptation” e “Blue Monday” sparate in rapida successione, a neanche mezzora dall'inizio del set, oltre a farti godere e muovere da solo sotto l'ombrello, ti fanno salire il dubbio se per caso c'è la volontà di chiudere presto la scaletta visto che la pioggia ha ora aumentato la propria intensità.
Invece no, si tratta solo della prima parte dedicata ai New Order, quaranta minuti praticamente perfetti, e adesso sotto con i Joy Division.
Ci sono tutte, “No Love Lost”, “Isolation”, “Disorder”, “She's lost Control”: la nascita e il vertice stesso del post punk, chitarre angolari, batteria circolare, Peter Hook che suona praticamente solo le note alte del basso: la spazialità del suono, concetto caro a Martin Hannett, geniale produttore dei due album Joy Division.
Un'intensità che non ti aspetteresti di ritrovare intatta visto che qua c'è solo Peter Hook, non c'è la band originale, eppure te la ritrovi e non ti resta altro che immergerti dentro.
“Ceremony”, Transmission” e “Love Will Tear us Apart” sono il sigillo finale (e che sigillo!) a questa splendida serata cupa e piovosa accompagnata dalle migliori canzoni possibili immaginabili.

ALBERTO CAMERINI NEL 1982

C'era un vecchio sito di Alberto Camerini, che sbirciavo anni fa, in cui erano spiegate molto bene le varie fasi della sua carriera; poi questo sito sparì. Ad ogni modo, digitando incastri di parole chiave, si riesce comunque a raggiungerlo.
Per salvare dall'oblio questi bei resoconti li pubblico qua, in modo da tenerseli stretti.

Alberto con Sergio Pescara
TOURNÉE DELLE BAMBOLE 1982

L'album "Rockmantico" raccontava una commedia di Marivaux, autore francese del '700, scritta apposta per il Theatre des Italiens dove recitava la maschera di Arlecchino: "Arlequin Poli par l'Amour", "Arlecchino educato dall'Amore".
Il pubblico di non addetti alla Commedia dell'Arte non conosceva la commedia, un delizioso atto unico.
lo pretesi ugualmente di tentare di rappresentarla, dimostrando enorme fiducia nella capacità di comprensione del mio pubblico, ormai abusato e ridotto soltanto ad un orda di assatanate piccole baccanti super fans.
Comunque il progetto era quello di portare in scena una Compagnia di Comici, cioè attori di commedia, Italiani, che sulla strada per la Francia, in Piemonte, entrano in un giardino, (ce ne sono di bellissimi) e recitano "L'Arlequin Poli par l'Amour", dove si parla di streghe, incantesimi d'amore, e di trasformazione in statue. Come per esempio quella che c'e nella commedia del Don Giovanni, tipico luogo comune teatrale del Settecento, o meglio, caratteristico lazzo inventato dai comici del Seicento.
Credo che Marivaux, fine cesellatore dei sentimenti e acuto descrittore delle intricate relazioni sentimentali, sia stato costretto dal mercato, o meglio dal suo pubblico di corte, ad utilizzare una favola (in fondo quasi infantile) dove una maga Morgana trasforma Silvia, innamorata di Arlecchino, in una statua grazie ad una bacchetta magica onnipotente, forse un simbolo criptato.
L'intreccio dei sentimenti, pochi personaggi, Arlecchino, Silvia e la Fata, è accuratamente e felicemente descritto nella commedia di Marivaux ed ha anche tanti doppi sensi sentimentali .
Cosa c'entrasse tutto ciò con la musica pop non l'ho mai capito, ne mi sono mai preoccupato di capirlo. Decisi allora di utilizzare dei manichini di donna, da vetrina, sulla scena, di grandezza umana, come enormi burattini, o come esseri umani di plastica. Erano le attrici trasformate, come nella favola di Marivaux, in statue. Le avrei fatte parlare con nastri pre registrati che a tutt'oggi non ho ancora finito di realizzare.
I manichini avevano dei vestiti meravigliosi che io stesso avevo preparato, autonominandomi costumista della troupe, oltre che coreografo, primo ballerino, truccatore, parrucchiere, regista, chitarrista, cantante, paroliere, amministratore, autista e sommellier.
La fata aveva dei bellissimi capelli neri lunghi ed una gonna di tulle bianca, larghissima, come un vestito da sposa, sostenuta da un'armatura di filo di ferro che avevo fabbricato. Un top di carta dorata e un cappello a cono altissimo da fata.
Silvia, la ballerina elettrica, una mini gonna metallizzata e una canottiera di lurex scintillante e i capelli biondissimi. Il palco, illuminato dai raggi colorati degli spot, sullo sfondo di qualche giardino dove spesso si tenevano i concerti, era meraviglioso e visibile a chilometri di distanza. C'era un fondale nero di stoffa che avevo costruito io, megalomane...
Ma la ditta Alberto Camerini era ormai un rock show e tutta questa storia di Commedia dell'Arte, per di più realizzata così, a ritmi infernali e inserita in un contesto musicale pop, non venne minimamemte capita, non riuscii a farla capire.
C'era poi anche una seconda parte nello spettacolo di quell' anno '82 dove si portava in scena la storia di un ristorante, "Il Ristorante di Ricciolina". Avevo comprato una gigantesca insegna al neon alta un metro e mezzo e lunga due e mezzo, che era la nostra bandiera elettrica, che in caratteri colorati componeva la scritta "Italian Restaurant" e "Arlecchino".
Avevo affittato da Rancati, il magazzino teatrale di tutti gli oggetti di scena delle vere compagnie teatrali, statue di gesso di cibi: forme di formaggio, arrosti, polli, frutta, torte ecc., che un tecnico grassissimo, Ciclone, simbolo dell'opulenza e dell'abbondanza, vestito da cuoco con tanto di cappello, portava sul palco, insieme a mio cugino brasiliano Maurizio, che abita a Roma, che interpretava la maschera di Scaramuccia, vestito come me da cameriere, pantaloni neri e giacchetta bianca. Era il nostro ristorante italiano. Mancava Ricciolina. La tournee fu un trionfo. Arrivammo ad Aosta da Agrigento, dal Gran Sasso a Pordenone, ovunque c'era il pieno. Tranne Milano, dove il permesso del Teatro Tenda fu revocato misteriosamente qualche ora prima del concerto.
Proprio a Milano, solo a Milano.
Scherzi del destino crudele!
La band: Giaso, Rossi, Gnech, Stemby, Edo. un buon rock elettronico, con tre tastiere e due chitarre elettriche, c'erano assoli pre-Van Halen, Stemby faceva una scena impressionante con la sua tuta da meccanico gialla, i tre tastieristi stavano dietro le tastiere coperte da pannelli neri di compensato e si vedevano dal busto alla testa e bene. Il palco era grande e saremmo piaciuti moltissimo, ne sono sicuro, anche al Melody Maker, il mitico giornale inglese di musica pop. Eravamo proprio un rock show che faceva scena. Proprio tanta. Troppa.
Io mi ero ossigenato i capelli, ero diventato completamente biondo ed ero proprio bruttissimo. Stavo malissimo. Alberto Cusella, promoter allora della Polygram, oggi capo del marketing della WEA, me lo disse e scoppiai a piangere dalla disperazione. ovviamente non è vero.
Ho una foto sul palco la sera della finale in cui io sono in mezzo a Nada e Riccardo Cocciante e Gianni Morandi, vestito con una calzamaglia bianca da ballerino che la CBS mi aveva comprato, gli stivali di pelle da 600 mila lire, fatti fare su misura in un negozio di via Montenapoleone a Milano, carissimi, una casacca di Arlecchino troppo stilizzata, tutta di azzurro, blu, celeste e turchese, con solo il cuore rosso, che sembrava la pubblicità di una birra bavarese, e una fascetta orrenda sul ciuffo superlaccato, con lacca a presa rapida tipo cemento armato, biondo irreparabilmente, ormai.
E senza chitarra. Avevo una mini tastierina Casio giocattolo con la quale io e Roby volevamo fare computer music.
"Tanz bambolina" piacque sia alle fans, ragazzine, ai Bavaresi, per via della casacca, ai tedeschi di ogni latitudine per il titolo del brano in tedesco, agli ultras gay, alle parrucchiere d'Italia, ai bambini e alle bambine, ai consumatori di giocattoli ma non ai rock'n'rollers, che erano il mio pubblico più duro.
Un disastro di marketing, purtroppo.
Cominciavo a perdere controllo. Il clown elettronico stava diventando troppo mostruosamente melodrammatico, assurgeva a vette di inintellegibile e forse sublime altezza, di delirio mistico, troppo totalmente al di sopra dei convenzionali ovvi e banali sistemi di comunicazione vigenti presso le barbare tribù del rock.

Arlequin Poli par l'Amour, fanatico di rock'n'roll, Mr Rock.
Arlecchino azzurro, blue Harlequin, azzurro, celeste, turchese, metallici losanghi, rombi, silver metal baloon pants, blonde hair, 2 new fender guitars, make up overdose, solo uno rosso, Sicilian tour, 132 Fiat, rented cars, hotels everyday, Vivaldi, Nena, Spliff, Carbonara, Lena Lovich, Nina Hagen, Mundial, Italia Campione del Mondo Football.

ALBERTO CAMERINI @ PERAROCK - PERAROLO (VI) - 23/07/2015


Ho il culto di Alberto Camerini dai primi anni zero, tempi di piena adolescenza; non mi ricordo bene come lo conobbi, probabilmente scavando a fondo nella notte musicale come si fa tra appassionati.
Negli anni acquistai un paio di suoi vinili, qualche cd ed ebbi anche modo di vederlo live due volte: entrambe quantomeno strane, in quanto il nostro Arlecchino metteva su un cd con le basi e ci cantava sopra, qualche volta prendendo il tempo, altre volte no.
Invece ieri sera a Perarolo (Colli Berici a sud ovest di Vicenza, da cui si può godere di uno stupendo panorama sulla città del Palladio) è stato diverso, più bello, degno della gloriosa storia del nostro Alberto.
Si è presentato con una band a supporto e insieme hanno macinato un'ora di good vibrations, con tutte le hit al loro posto ed altri pezzi punk meno conosciuti (provenienti dagli anni zero) ma non per questo meno efficaci.
Rock'n'Roll Robot, Computer Capriccio, Maccheroni Elettronici, Kids Wanna Rock.
Poi lui è un personaggio inafferrabile, non sai mai dove lo potranno portare i voli pindarici della sua mente: così tra una canzone e l'altra c'è tempo per ridere, per stupirsi di certe spiegazioni dettagliate a presentazione dei brani, per una citazione degli Sham 69, insomma per riconoscere che Alberto Camerini è un artista personale ed unico.
Una meteora nello star system italiano (che frequentò con profitto ed ottimi risultati nei primi anni '80), ma un punto fermo per coloro che lo apprezzano.
E allora in alto i calici e cento di questi concerti Mr. Camerini!

DICTATORS - ALTROQUANDO - ZERO BRANCO (TV) - 05/06/2015


Dopo una lunga assenza si torna all'Altroquando di Zero Branco, mitico locale incastonato tra le provincie di Treviso, Padova e Venezia.
L'occasione è di quelle ghiotte: ci sono i Dictators, storico gruppo di culto formatosi a New York nel 1973 e arrivato al debutto con lo splendido album "Go Girl Crazy" nel 1975, in anticipo su tutti i gloriosi esponenti della scena newyorkese.
Rock stradaiolo dai ritmi medi, rock'n'roll scarnificato, proto punk, suonato da una band vestita con jeans, maglietta e sneakers; c'erano anche altri quattro ragazzi, a pochi isolati di distanza, che iniziavano a fare qualcosa di simile a modo proprio, i Ramones.
Insomma c'è attesa, e intorno alle 22.30 la band sale sul palco; la prima parte di show è tutto sommato noiosa, contrassegnata da uno scialbo hard rock e da un suono generale che sembra non rendere al meglio.
Ci si inizia a muovere giusto con "Who will save rock'n'roll", che fa battere il piedino ed agitare le gambe.
Nel frattempo studio un pò il quintetto, il cantante Handsome Dick Manitoba con capellino in lana del Bronx anche se ci sono 40 gradi, il capellone Ross the Boss e la seconda chitarra Daniel Rey (in sostituzione del membro originario Andy Shernoff), produttore di alcuni album dei Ramones (nonchè co-compositore di alcuni pezzi degli stessi).
Forse una band un pò tamarra, ma un amico mi fa notare che se non fossero così non si chiamerebbero "Dittatori".
La seconda parte dello show va decisamente meglio, le canzoni iniziano ad essere di un certo livello ("Cars and Girls", "Faster and Louder") e contribuiscono decisamente ad alzare la media voto finale.
Un concerto onesto, dai; fosse per me avrei preferito che mi suonassero quasi interamente "Go Girl Crazy", aggiungendo i pezzi migliori dagli altri tre album e buonanotte ai suonatori, però ci si accontenta e ci si diverte comunque in questa calda serata di inizio giugno, e quindi va bene così.

LEONI



Quando ho sentito parlare per la prima volta di "Leoni" non nego di aver pensato: "Sarà il solito film che spara a zero sugli stereotipi veneti".
Poi è arrivata l'occasione di vederlo, in un cinemino di campagna con la presenza del regista in sala, e devo dire che invece mi ha colpito positivamente.
Niente stereotipi, niente denigrazione gratuita, solo uno spaccato tipico e caratteristico di una famiglia veneta.
C'è la crisi, ci sono gli intrighi della provincia, c'è una splendida Treviso; viene spontaneo, almeno per le ultime due voci, pensare a quel "Signore e Signori" di Pietro Germi che proprio a Treviso fu ambientato alla metà degli anni '60, oppure a certe opere del compianto Carlo Mazzacurati e al suo sguardo umano su questa terra.
Ecco, sarebbe bello che il regista Pietro Parolin continuasse sul solco tracciato proprio dal Mazzacurati, perché di quelle storie se ne sente ancora il bisogno.

PYJAMARAMA + MULETA - RICKY'S PUB - ABBAZIA PISANI (PD) - 09/05/2015



Metti una sera in provincia, Milan - Roma sul divano di casa e poi via al Ricky's Pub di Abbazia Pisani.
Stasera suonano le due incarnazioni dei Melt post scioglimento, i Pyjamarama e i Muleta: sono curioso, soprattuto dei primi che non ho mai visto.
Nei Pyjamarama ci sono Teo e Diego, basso/voce e batteria di casa madre Melt, nei Muleta Teno, l'ex chitarra.
I Pyjama, in termini sonori, sono praticamente la continuazione degli ultimi Melt, forse solo un attimo più diretti. Rock punk cantato in italiano, melodico e non banale.
Bevo una birra e penso ai Melt, al fatto che anni fa emergevi se eri valido senza tanta fuffa promozionale, c'erano ragazzi che seguivano il genere e in qualche modo ti premiavano con il passaparola, passando la cassetta all'amico e roba così.
Succede ancora qualcosa di simile là fuori? Non saprei.
I Muleta li avevo visti tempo fa e stasera li ritrovo più compatti, un bel suono elettrico dato dalle due chitarre e caratterizzato dall'assenza di basso: punk scarno e sonico, legato all'urgenza espressiva con un attitudine che mi piace.
I presenti apprezzano e si godono le vibrazioni.