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ORDINARY BOYS @ ISLINGTON ACADEMY - LONDON - 14/12/2011

Non mi era mai capitato fino ad ora di vedere un concerto a Londra, in qualche modo la patria di certi suoni e stili giovanili, e l'occasione è arrivata quest'anno complice un soggiorno di una settimana nella capitale dell'Impero Britannico.
Gli Ordinary Boys non sono certamente la nuova "big sensation" nel panorama musicale d'oltremanica, nel quale è presente un meccanismo interno che "crea e distrugge" nuovi fenomeni musicali che nel giro di poche stagioni cadono nel dimenticatoio; meccanismo questo principalmente guidato dal NME, settimanale musicale, che essendo appunto settimanale ha la necessità di scrivere su qualcosa di nuovo abbastanza periodicamente, così da proiettare sotto i riflettori giovani band che, molto spesso, di lì a poco cederanno il passo ai nuovi arrivati.
Sono nuove band che comunque crescono in un humus musicale/culturale, come quello britannico, che non ha paragoni al mondo.
Cinquant'anni di storia musicale e di eccellenza in tutti gli stili "pop" sono un patrimonio incredibile, quindi beati loro.
Detto questo parliamo degli Ordinary Boys.
Collegandomi a quanto detto poc'anzi, mi sono trovato davanti a quattro ragazzi ventisettenni che a loro modo sono già dei reduci.
Formatisi nel 2002 hanno raggiunto il loro apice nel triennio che va dal 2004 al 2006, per poi sciogliersi nel 2008.
Questo quindi intrapreso nel 2011 è un tour di reunion: quantomeno curioso che a farlo siano dei ragazzi che non hanno superato i trenta d'eta.
Robe da UK.
C'è parecchia gente all'Islington Academy, il locale è grande il giusto e, anche se funziona un solo bancone bar, riesco miracolosamente a non perdere più di cinque minuti per ordinare una birra media che come qualità risulterà essere inferiore alla peggior birra macedone.
Arriva il momento dell'inizio e i quattro "ragazzi ordinari" salgono sul palco: Samuel Preston, il cantante/chitarrista, con una camicia maniche corte bianca, ciuffo alto e tatuaggi sulle braccia.
L'altro chitarrista è vestito bene con una giacca tre bottoni blu scuro e una camicia Ben Sherman, il bassista anche lui in Ben Sherman, mentre il batterista non me lo ricordo.
Attaccano con "Over the Counter Culture", pezzo d'apertura del loro primo album omonimo e piano piano eseguono praticamente tutte le canzoni contenute nel loro esordio.
Io sinceramente credevo che la scaletta puntasse più sul secondo, ottimo, album "Brassbound", invece mi sbaglio.
Praticamente di quest'ultimo eseguono la traccia omonima, "Life Will Be the Death of Me", ovviamente l'accalamatissima "Boys Will be Boys" e "A Call to Arms".
Le altre sono praticamente tutte del primo album, che comunque non disdegno pur essendo abbastanza diverso stilisticamente dal secondo.
In "Over the Counter Culture", infatti, le chitarre sono molto "grosse", i pezzi parecchio battuti e punkeggianti, dando vita ad una sorta di pop punk melodico di lana grossa, suonato comunque con perizia e stile.
Il secondo, "Brassbound", è invece una sorta di passaggio di maturità, con pezzi più studiati, tutti potenziali singoli, con cui la band va a piazzarsi su una strada dove i cartelli di sosta indicano Jam, Madness e Smiths.
Comunque la band dal vivo ci sa fare e parecchio.
Se mi basassi su una pura considerazione tecnica, valutazione dalla quale comunque non dipende in maniera decisiva il mio concetto di "bel concerto", gli Ordinary Boys macinano che è un piacere.
Non un errore, un'imprecisione, una sbavatura.
Sul piano del coinvolgimento Preston in un paio di occasioni si toglie la chitarra e si tuffa sul pubblico, manco fosse un concerto dei Raw Power, comunque generando entusiasmo nelle prime file che non ho capito bene da che target di pubblico erano composte.
Sicuramente presenti diversi ragazzi con un look mod/casual vicino a me.
Un'ultima osservazione sulle cover proposte dai quattro: "What do I get?" dei Buzzcocks (gran pezzo di una grande band), "Little Bitch" degli Specials (presente anche nel loro primo album) e "Sleigh Ride" delle Ronettes , canzone natalizia che si rivelerà essere la colonna sonora dei miei giorni londinesi dato che la sentirò praticamente altre cinque/sei volte in vari negozi.
Ecco, se un gruppo, come ho sentito da qualche parte, si giudica anche per le cover che sceglie direi che gli Ordinary Boys sono decisamente promossi, almeno per il sottoscritto.
Un'oretta in tutto di show e alle 22.30 è tutto finito: e qua mi viene da ridere.
Da noi alle 22.30 la gente sta ancora decidendo se uscire di casa e a Londra (non a Pizzighettone), sebbene con la scusante che fosse un mercoledi sera, alle 22.30 la gente prende la tube per tornare a casa da un'ottimo concerto.
Io, per alcune cose, tifo Inghilterra.
SURFIN' LUNGS @ BAR GIRADISCHI - THIENE

Ieri pomeriggio, come ogni inizio weekend, ho dato un occhio a "Made in Pop", ottima newsletter legata alla diffusione di serate in Veneto orientate, in maniera generica, all "alternative rock" e vengo a scoprire che i Surfin' Lungs la sera stessa avrebbero suonato ad una cinquantina di km da casa mia.
Ottimo!
Non mi capita molte volte di informarmi il giorno stesso per un concerto interessante che si tiene la sera, di solito è una cosa che si viene a sapere uno/due mesi prima, così si ha tutto il tempo per programmarsi come si deve, però in questo caso le circostanze lavorative mi sono a favore e quindi decido di andare.
I Surfin' Lungs ricordo che li scoprii con un'intervista su Bam! (benemerita fanzine punk rock'n'roll) oramai dieci anni fà, e so bene di che gruppo si tratta.
Il locale è una bar di periferia, abbastanza brutto e con un bancone troppo spropositato rispetto all'effettivo spazio del locale, però ha l'indubbio merito di organizzare una serata come questa e quindi pollice alto.
Arrivo intorno alle 22.00 che il gruppo spalla, i Key Movement, stanno per finire il loro set; mi rammarico un pò per non averli visti, del resto era già stata una mezza sorpresa sapere che avrebbero aperto la serata, non sapevo che fossero ancora attivi.
Ricordo di averli visti già un paio di volte nel corso dei 2000, e di averli sempre apprezzati per la loro miscela surf r'n'r decisamente riuscita.
Quindi alle 22.40 è già ora che i Surfin' Lungs salgano sul palco.
Bene, penso, finalmente un concerto con orari umani senza che il gruppo spalla inizi a suonare a mezzanotte.
Arrivano da Brighton e sono attivi da una trentina d'anni, sicuramente un gruppo storico e cult per chi ha sempre seguito certi suoni, e di fronte a me trovo un cantante chitarrista con una Mosrite dodici corde ed un doppio collo notevole, un bassista normale con i capelli brizzolati, un chitarrista (che poi passerà alla tastiera) con capellino della Corvette, magro come un osso ed identificato da me come "un tipetto tutto nervi", mentre dietro alle pelli scorgo un essere umano simile ad un pensionato abbastanza su di peso.
Suonano con camicie hawaiane e la cosa, per il chitarrista/cantante e per il batterista, ha l'indubbio merito di farmeli apparire come due pensionati in vacanza al Lago di Garda.
Le canzoni sono pure melodie in stile primi Beach Boys, canzoni divertenti, positive e con gli immancabili coretti scemi che si stagliano su una base rock'n'roll classica.
C'è anche spazio per qualche pezzo strumentale, tipico dell'altro filone surf.
Durante il concerto la gente balla e si diverte come fosse un concerto da Arnold's Happy Days.
Un'oretta di set e poi si ritorna fuori catapultati nella realtà della provincia veneta, con un tipico scenario dicembrino a farti compagnia.
RIFF RAFF - MEGLIO PERDERLI CHE TROVARLI

Pellicola del 1991 diretta da Ken Loach, regista impegnato ed interessato nella rappresentazione delle condizioni del proletariato e del sottoproletariato inglese, Riff - Raff (il quale presenta un azzeccato, a mio parere, sottotitolo in Italiano) coglie nel segno.
Protagonisti un gruppo di sottoproletari inglesi, con Londra come punto di arrivo comune (l'attore protagonista arriva dalla Scozia, un'altro da Liverpool e così via), impegnati come muratori in un cantiere privo delle minime condizioni di sicurezza lavorative, oltre che ad essere privati gli stessi lavoratori dei più elementari diritti in materia.
Cantieri, paghe da poche sterline, case occupate, relazioni complicate, pub.
Un film duro, come vuole la tradizione di Ken Loach, che lascia ben poco spazio ai sogni di gloria o alla realizzazione di questi, ma che si pone come semplice descrizione di una vita abbastanza ai margini come quella dei protagonisti.
COSE PER CUI VALE LA PENA DI VIVERE: AMARO BRAULIO

Mi cospargo il capo di cenere per aver scoperto solo nell'ultimo anno questo amaro, che comunque entra dritto dritto nella mia " top three" degli amari più amati.
Io fin da ragazzino non ho mai disdegnato il Montenegro, poi mi sono avvicinato al Di Saronno (bevuti parecchi nonostante la dolcezza dopo un pò ti impasti la bocca).
Ora quest'anno, arriva questa gradita sorpresa: l'Amaro Braulio.
Una sera, in una birreria di Marostica, hoi provato il locale amaro alle erbe, trovandolo ottimo.
Mi è sembrato naturale proseguire sulla strada dell'amaro alle erbe che sembra dare grandi soddisfazioni aromatiche al mio palato nelle due/tre volte al mese che me lo gusto.
Amaro da gustarsi ai tavolini di una bar in stile anni '60, vestiti bene e proiettandosi fuori dal mondo moderno fatto di Bacardi e Vodke varie.
UNA GRANDE DOMENICA

Sabato questo si giocherà all'Euganeo Padova - Torino, match che da tre stagioni va in scena regolarmente nel campionato cadetto.
Mi sembra giusto compiere un bel tuffo nel passato ed andare a ricordare il "famoso" (da queste parti) Padova - Torino che si svolse domenica 20 febbraio 1949.
Quello che arrivava all'Appiani era quello che sarà ricordato poi come il Grande Torino, una squadra che (giustamente) riveste ancora una certa importanza nell'immaginario popolare e la cui grandezza si è tramandata fino ai giorni nostri.
Il Padova invece era una squadra neopromossa, che disputò un buon campionato classificandosi al 12° posto (su 20 squadre) e in grado di mantenersi nella massima serie fino al 1952 (pochi anni dopo sarà la volta del Padova di Nereo Rocco e dei "panzer", in grado di ottenere un memorabile terzo posto nella stagione 1957-58).
Checchetti firmò il doppio vantaggio per i Biancoscudati, Ossola e Castigliano recuperarono per il Toro; altro doppio vantaggio per il biancoscudo con Vitali e Fiore, raggiunto da una doppietta di Menti che concluse definitivamente l'epica sfida.
Si giocava di domenica, l'Appiani (per chi non lo conosce) è uno stadio in pieno centro cittadino, a due passi da Prato della Valle e con le cupole della basilica di Santa Giustina che si stagliano dietro la tribuna est.
Altro calcio, altri tempi, la prima ed ultima occasione in cui il Grande Toro scese in campo all'Appiani, visto il tragico destino che accorse da li a neanche tre mesi.
BARRACUDAS - THE BIG GAP 1978-1981

I Barracudas sono senz'altro uno dei miei gruppi preferiti, soprattutto nella loro fase iniziale.
In quest'ottima pagina (http://www.caio.it/musica/barracudas.htm) è presente una sorta di storia cronologica che ripercorre i primi anni di vita del gruppo, e di conseguenza va a trattare delle canzoni contenute in questo "The Big Gap".
Ecco quindi un copia/incolla della descrizione in merito.
The Big Gap
Antologia che copre il primo periodo di vita dei Barracudas, antecedente alla pubblicazione del primo album, "Drop out with the Barracudas". Registrazioni amatoriali (o pessime: in qualche caso il senso è lo stesso), perle di musica onesta e forte sparse da questi ragazzi sfortunati e negletti. Ripercorriamo il sentiero cronologicamente.
1978
Un'unica canzone datata 1978, "Love is fun" (firmata Robin Wills), ballata chitarristica leggera e già stilisticamente riconducibile ai nostri.
1979
Quattro canzoni targate 1979, a cominciare dall'apertura del primo lato, "Neighborhood girl", canzone influenzata dagli arpeggi dei Byrds, ma che la voce di Jeremy Gluck rende immediatamente personale (davvero peculiare il timbro vocale di Jeremy Gluck, come pochi altri). "Surfers are back" (firmata da Robin Wills e presente anche nel primo album del gruppo in versione leggermente diversa) e il classico "Little red book" (di Bacharach e David), sono unite in un medley di robusto e grezzo garage-rock (la registrazione non è delle migliori...). A proposito di registrazioni pessime, la versione dal vivo di "I'm a barbarian (For your love)" supera ogni limite: difficile capirci qualcosa, se non che il pezzo è percorso dal virus jungle-rock, la patologia con la quale Bo Diddley ha influenzato e infettato buona parte del globo terracqueo che si diletta di rock.
1980
Tre le canzoni dal 1980. "Tokyo Rose" sembra un provino lasciato a metà, "Radios in revolt", pur mantenendo i Barracudas nel loro ambito garage-surf, ricorda in qualche modo i Clash, ma non saprei perché... La conclusione dell'intera antologia è affidata ad una versione sferragliante e sgangherata di "Surfer Joe", successo del 1963 dei Surfaris, talmente incasinata durante i ritornelli da fare tenerezza.
1981
Le quattro canzoni del 1981, lo stesso anno dell'esordio su album dei Barracudas, iniziano alla fine della prima facciata, con una versione dal vivo di "Boss Hoss", classico dei Sonics, che definire grezza e sferragliante è un eufemismo (classica è anche la registrazione che sembra provenire dall'oltretomba) e proseguono con le prime tre canzoni della seconda facciata: "On a Sunday" è un pezzo bellissimo, drammatico e dal grande respiro e che poco ha a che vedere con i Barracudas di "Drop out with the..."; "Gotta get a gun" è un tuffo piacevole nel rock'n'roll più classico, "I can't sleep" una ballata leggera non risolta del tutto.
Antologia di grande valore, al di là delle ingenuità e delle registrazioni non all'altezza, ma da un gruppo garage ci si aspetta tutto questo e anche molto di peggio. I cromosomi rock dei Barracudas meritano tutto il rispetto possibile, anche alla luce di questi reperti archeologici.
CARLO BONINI - ACAB

Non mi è piaciuto molto questo libro: secondo me si vede troppo che è scritto da un esterno che decide di scrivere di cose che personalmente non ha mai vissuto e con questo non voglio dire che io abbia vissuto quello che è scritto su ACAB.
Il "drago", lo "sciatto", "marzapane", tipici soprannomi da romani che mi appaiono distanti, io personalmente mi sento più vicino a Londra che non a Roma.
Forse è proprio la realtà di Roma ad apparire poco esportabile all'esterno, presa com'è a fare la capitale di uno Stato che contiene differenze enormi al proprio interno.
Celerini, ultras, G8, romeni, napoletani..qua dentro è tutto teso ed estremo, ma sembra quasi "di plastica" nel suo voler apparire reale e schietto.
Una lettura che non lascia spazio all'immaginazione, non da modo di appassionarsi, di voler riaprire il libro per vedere come va a finire.
STAMFORD BRIDGE



Per fare il bis con la foto sotto di "Ossie", ecco tre belle immagini di Stamford Bridge prima della ristrutturazione.
Una grande tribuna (la East Stand) e alcuni metri dietro le porte..però sembra trasudare comunque il suo fascino, sicuramente sempre dieci spanne avanti lo "stadio" del Siena o l'Euganeo di Padova.
JOHN KING - CACCIATORI DI TESTE

Un libro stupendo.
Non so cos'altro dire davanti a questo grande romanzo (nel senso lato del termine) scritto dall'infallibile John King.
Il "campionato del sesso" che la Sex Division formata da Carter, Harry, Balti, Will e Mango, decide di giocare a partire dal primo dell'anno è in realtà una scusa per parlare in maniera interessante del rapporto tra uomini e donne a seconda delle diverse personalità coinvolte, mentre la vita dei cinque personaggi scorre tra calcio, pub, birre, lavoro, violenza, sogni, divertimento.
Secondo capitolo della famosa "trilogia del calcio", è un lavoro veramente completo, che soddisfa e appassiona il lettore come me.
John King sa bene di quello che parla, i protagonisti sono gente normale, e ovviamente dopo un pò di pagine si comincia a conoscerli bene e si cerca di dargli delle sembianze immaginarie (almeno nella ma mente).
Mi piacerebbe vedere la versione film di questo libro, perchè secondo me si presta alla grande.
Grande John King!
THIS IS CULT!
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