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sabato 19 febbraio 2022

CAMPO DI CONCENTRAZIONE - L' ARTE DI MANUEL COSSU

 


Manuel Cossu, “Manuel dei Manges”, nato nel 1976 a La Spezia: batterista e songwriter di una delle più fighe punk rock band al mondo ed artista figurativo.

Il 12 febbraio a Cittadella abbiamo organizzato una personale dei suo lavori, “Campo di Concentrazione”: un periodo di attività intenso per il nostro che negli ultimi mesi ha esposto una personale su Lilli Carati a Bergamo (pubblicando anche un numero unico di art magazine dedicato alla tormentata figura dell'attrice), a Roma e in una farmacia di La Spezia.

Si, in una farmacia perché da un po' Manuel dipinge sui bugiardini dei farmaci: “Soffro di deficit di attenzione, i bugiardini rappresentano l'essenza di quello a cui devi stare attento, tutte quelle istruzioni in bianco e nero che ti dicono cosa devi fare per curarti. Così si è venuta a creare una sorta di contrapposizione.”

Gli chiedo come ha iniziato a disegnare, come si è avvicinato a questa forma di espressione: “Molto semplicemente negli anni '90 capitava di registrare delle cassette TDK per gli amici, solitamente ci facevo un disegno in copertina, qualcosa sui Ramones. La prima tela di una certa dimensione la feci nel 1996 dietro il tavolo da Subbuteo e ci disegnai Dee Dee Ramone con scritto “I remember you”, è esposta alla Skaletta (storico club r'n'r di La Spezia attivo dal 1994). Dee Dee è uno dei miei miti in assoluto.” L'hai conosciuto? “Negli anni '90 andai appositamente a New York per poterlo incontrare. Non ci riuscii ma incontrai Arturo Vega (visual artist dei Ramones) ad un semaforo a cui diedi i miei disegni. Arturo Vega è stato importante per me perché mi ha spinto a continuare a disegnare, mi apprezzava, mise i miei disegni sul sito dei Ramones. Dee Dee l'ho visto live e incontrato poi diverse volte. Il concerto più bello in assoluto della mia vita è stato per me Genova 1994, il tour di “I hate freaks like you”,ancora meglio di quelli dei Ramones. A Dee Dee una volta in Germania diedi i miei disegni e lui mi regalò la sua tshirt.”

Dee Dee, Lilli Carati, raffiguri spesso vite non pacificate, figure tragiche: “Si, tragiche ma non patetiche.” Cosa ti attrae di tutto questo? “Una sorta di resistenza nei confronti delle avversità della vita, vite incasinate, gente che pativa. Io non sono legato a concetti come “la vita è un sogno”, per far andare una vita ci vuole che tante cose vadano per il verso giusto, non è facile. Mi attrae l'idea di non mollare, di fare a pugni con la vita per non soccombere.”

Il fatto di dipingere spesso anche Santi e Madonne in maniera non conforme è in qualche maniera collegato a questo? “Sono immagini che da sempre fanno parte di una certa realtà, quando sei talmente incasinato da affidarti ad un qualcosa di superiore: “Gesù Gesù aiutami tu”. Pensa alla galera, ai tatuaggi con Santi, Madonne e Croci. La voglia di iniziare a disegnare, oltre ai Ramones, me la diede proprio i tatuaggi di un mio caro amico che si era fatto la galera e che ora non c'è più. Erano imperfetti, ma non significa non avessero passione, che non fossero vivi e reali.”

Mi sembra di notare un certo richiamo nelle tue opere a certa Italia anni '80, Alfredino Rampi, Ranxerox, Pertini: “Io sono del 1976, ero bambino e ragazzino negli anni '80. Era un Italia densa, dura, certe immagini me lo porterò dietro per sempre. Le nostre città erano piene di tossici, le curve straboccavano di ragazzi, gli stili giovanili, le compagnie di irregolari. Sono legato a tutto quel mondo.” Uno che è cresciuto quegli anni o che comunque ne è affascinato, come si trova ad affrontare un presente che sembra milioni anni luce distante? “Male, io non c'entro niente con tecnologia e derivati, son rimasto tagliato fuori da tutto questo, sono un analfabeta digitale. Fortunatamente ho gente che mi segue nella promozione, io non saprei da dove iniziare.”

La tua passione per l'Atalanta? “Arriva dalla stagione 1987/88, semifinale di Coppa delle Coppe con il Malines con l'Atalanta in serie B. L'ho seguita poi per parecchio tempo, quando si poteva decidere il giorno prima se andare alla partita, adesso per andare ad una partita devi programmare come si fa con le ferie, non ha più senso. Ho fatto anni in Curva Nord, partivo da La Spezia in treno e via. Uno dei miei più cari amici è uno dei fondatori del Wild Kaos. Credo di aver seguito più l'Atalanta in serie B che non in serie A.”

giovedì 11 febbraio 2016

INTERVISTA A PETE SHELLEY



I Buzzcocks si sono riformati nel 1989, dopo otto anni: non riuscivi a stare lontano dal gruppo?

Le canzoni che abbiamo registrato quand'eravamo giovani significano molto per alcuni. Da quando mi collego su Internet, ci sono tante persone che mi scrivono, mi raccontano la loro vita, quanto sono stati importanti i Buzzcocks. Avevo completamente voltato le spalle a quella avventura, avevo lasciato Manchester per Londra. Steve Diggle, il nostro chitarrista, ogni tanto mi proponeva di riunirci. Gli dicevo "D'accordo, ma a una sola condizione: che tu riesca a mettere in piedi il gruppo con gli stessi membri di quando ci siamo separati". Non era un grosso rischio, perché sapevo che il bassista Steve Garvey aveva messo su famiglia negli Stati Uniti, il batterista John Maher si occupava solo dei dragsters che lui stesso costruiva. Non avevo alcun interesse a riaprire la questione, mi sembrava triste e inutile. Poi sei anni fa Steve Diggle ha forzato la mano riformando da solo il gruppo. Si è sparsa la voce che i Buzzcocks sarebbero ritornati, dei promoters americani erano disponibili a investire una fortuna per organizzare un tour: tre settimane a condizioni molto favorevoli. Uno dopo l'altro abbiamo messo da parte i rancori e siamo ripartiti insieme. Comunque non mi mancava.

Avevi rinunciato alla musica?

Provavo con la techno... Deluso dall'avventura Buzzcocks e dall'insuccesso dei miei album solisti, ero tentato di abbandonare la musica. Ma non so fare nient'altro. Tutti gli altri lavori necessitano che ci si alzi presto e questo è al di sopra dei miei mezzi. Non ho mai sopportato una vita organizzata, seguo solo il mio piacere. E certe volte anche la musica diventa una routine... persino nel momento in cui i Buzzcocks erano sulla cresta dell'onda mia madre mi chiedeva "Quando troverai un vero lavoro?". Alla fine ha capito che ero un vero artista. Una stronzata o no? (ride). Mi considero come un ballerino: il piacere di creare è fisico, mi sento diventare leggero e grazioso. Cantare mi dà una gioia immensa, sono triste per la gente che si limita soltanto ad ascoltare la musica. Continuerei a cantare anche solo per me stesso.

Molti gruppi influenzati dai Buzzcocks hanno raggiunto il successo. Provi gelosia?

A metà degli anni '80 sentivo che l'unico motivo per cui Steve Diggle voleva riformare il gruppo era di rimettere a posto le cose con i nostri eredi. Per me il fatto di sapere che le nostre canzoni erano state importanti per quei ragazzi mi bastava. È nella logica delle cose, sei sotto i riflettori e, in un attimo, devi lasciare il tuo posto. L'ombra non mi ha mai fatto paura. Perché ero convinto che la gente sapesse che noi eravamo i primi. La gloria è un bell'affare, ma si fa fatica! Non avevo neanche il tempo di apprezzarla, perché la mia vita era solo eccesso e follia.

Nel 1981 non c'era altra soluzione che lasciare il gruppo per ritrovare la normalità?


Non potevo più stare al gioco. Mi ricordo di aver visto un filmato su un concerto degli U2 in uno stadio italiano. Su degli schermi giganti passavano dei visi scelti tra la folla: al gruppo non interessava chi fosse venuto a sentirli. Mentre per me era il contrario. Più le sale erano grandi, più il pubblico era numeroso, più andavo in depressione. Avevo l'idea naive di poter suonare solo davanti al pubblico che amava la nostra musica, mai davanti a quelli che definisco 'turisti' nel senso che vengono al concerto per fare due chiacchiere o bere qualcosa. Per me il pubblico doveva essere concentrato, capire perfettamente ciò che cantavamo. Mi rifiutavo di entrare nella società dello spettacolo. Quando il Papa a Pasqua dà la benedizione, affacciato al suo balcone, quanti sono lì per il rito religioso, quanti soltanto per fare delle foto e passeggiare per Roma? Se fossi lui, preferirei rivolgermi soltanto ai credenti.

Ti piaceva non stare al gioco?

A scuola ero considerato un ragazzo adorabile, mentre passavo il tempo a cercare gli errori nel sistema. Non ero mai incazzato, ma in contrapposizione: lo scopo era di restare nella legalità cercando di trarre il maggior vantaggio possibile dal sistema. Quando è nato il punk mi sono sentito subito a mio agio. Col mio gruppo affittavamo dal pastore di Leigh (tra Manchester e Liverpool) la sua chiesa per organizzare dei concerti il sabato sera. Anche a scuola andavo a trovare i miei professori per organizzare i miei corsi, cambiare gli orari, in modo che alla fine avevo quattro giorni liberi a settimana. Facevo credere loro che sarei andato a studiare in biblioteca, in realtà passavo il tempo in una sala giochi a fumare e parlare di musica.

La musica quando è diventata importante?

Natale 1968. Mio fratello ebbe in regalo un giradischi. Con i ragazzi della mia età, profittavamo dell'assenza dei genitori per organizzare delle feste ascoltando dischi e bevendo sidro. La musica allora divenne il mio legame con gli altri. Vicino a casa, c'era un negozio di dischi in cui passavo il tempo a comprare o scambiare i singoli. Il 4 gennaio 1970 presi in mano la chitarra per la prima volta. Mi ricordo la data esatta perché la segnai sul mio diario. "Oggi piove, mi annoio. Voglio provare a suonare la chitarra di mio fratello".

Sognavi di abbandonare la tua famiglia?

Non ero abbastanza violento per prendere una decione simile. Leggevo i libri nella mia stanza, saggio come un'immaginetta. Era con mio fratello che si incazzavano per delle storiacce. Io ero felice, non soffrivo di claustrofobia per quella piccola vita. Il mio sogno era di fare una cassetta con una mia canzone, andare in una cittadina turistica sul mare dove, per pochi soldi, potevi stampare un flexi disc. Per anni sono andato avanti aspettando il giorno in cui sarei diventato un musicista. Del resto cosa potevo fare con il mio diploma di elettricista? aggiustare televisioni tutto il giorno? Piuttosto la morte. Per respingere ancora una volta la vita attiva, iniziai altri studi: filosofia e letteratura europea comparata. Era la mia vendetta su tutti quegli anni di scuola in cui mi era vietato studiare l'arte o la letteratura a favore della matematica e delle scienze.

All'epoca hai lasciato la famiglia per andare a studiare a Bolton vicino Manchester. Come hai vissuto la nuova esperienza di libertà?

A Bolton avevo una stanza in una grande casa tenuta dal sindacato degli studenti. La mia ragazza poteva stare con me, ho vissuto tutte le esperienze tipiche degli studenti. Non si va all'università per studiare, ma per scoprire la vita e i suoi eccessi (ride). In quella casa c'era uno scantinato dove avevo installato amplificatore e chitarra. Mi accontentavo di scrivere delle canzoni pensando che le case discografiche fossero delle fortezze inespugnabili. Mi sentivo condannato a restare ai margini perché mi rifiutavo di suonare nei bar: chi sarebbe riuscito a bere birra ascoltando le cover di White Light White Heat o dei Roxy Music?
Nel '75 lessi un annuncio nella bacheca "Si cerca musicisti per riprendere Sister Ray dei Velvet". Ho telefonato e ho incontrato quello strano tipo che conoscevo di vista, si chiamava Howard Trafford. All'epoca non si faceva ancora chiamare Howard Devoto. Ero felice di aver incontrato qualcuno che non si lasciava andare a lunghi assolo, che non voleva rifare Smoke On The Water. Passavamo i fine settimana insieme a parlare del nostro futuro e ad ascoltare la sua incredibile collezione di dischi pirata di Dylan. La sua stanza era piena di libri: Burroughs, Proust, Camus, che leggevamo ascoltando gli Stooges. Un giorno ci siamo tinti i capelli di rosso, ridicolo! Da Pete McNeish sono diventato Pete Shelley, perché un giorno avevo chiesto a mia madre come mi avrebbe chiamato se fossi stata una femmina. Per gli altri avevo scelto questo nome in omaggio al poeta. Era così ma in un modo contorto. Mia madre aveva scelto Shelley in omaggio all'attrice Shelley Winters che, a sua volta, aveva cambiato il nome da Shirley in Shelley per il poeta.

Come vi siete accorti che stava succedendo qualcosa attorno ai Pistols?

Quello che ci ha immediatamente attratto era il fatto che riprendevano gli Stooges come noi. Era necessario che le cose cambiassero, anche i gruppi heavy metal suonavano troppo lentamente per noi. Howard ed io pensavamo di essere gli unici frustrati a Manchester, ma quando abbiamo invitato i Sex Pistols abbiamo scoperto un sacco di gente come noi. Eravamo rassegnati alla solitudine, ai nostri strani dischi, grazie al punk abbiamo scoperto altri abitanti sul nostro piccolo pianeta. Avevo l'impressione di essere uscito di prigione, di poter incontrare gente. Morrissey era sempre lì in prima fila, perché fra lui e McLaren c'era la connessione New York Dolls: il primo si occupava del loro fan club inglese, il secondo era stato il loro manager.

Come si vestivano i primi punk di Manchester lontano dalle boutique di moda a Londra?

Un giorno sono andato in una boutique chic di Manchester con Howard, che si è comprato un pantalone a strisce blu e rosse. Il sarto voleva sapere quanto doveva accorciarli. Ma Howard se li fece soltanto stringere. Il poveretto era stupefatto di dover trasformare dei pantaloni a zampa d'elefante in pantaloni a tubo. Nel '76 mi sono bucato le orecchie, ci ho infilato delle spille da balia e una lametta. Non puoi immaginare l'orrore e lo scandalo che ho suscitato in città. Bisognava leggere a fondo la stampa musicale per sapere dell'esistenza del punk. Noi eravamo felici: gli imbecilli non ne avevano ancora sentito parlare e noi avevamo l'impressione di essere una grande famiglia. Non avevo mai avuto tanti amici sparsi nel paese. Il movimento cominciava a diffondersi in tutte le città: Liverpool, Bristol, Birmingham, Sheffield... A poco a poco ci siamo organizzati. A Manchester c'era un club omosessuale gestito da un travestito, Fof Foo Lamar. Nel weekend i punk cominciarono a frequentarlo, perché solo Foo Foo metteva Bowie e tollerava dei ragazzi truccati e bizzarri. Anche a Londra i primi club frequentati dai punk erano gay. L'ambiente era molto giovane, tollerante, glamour, decadente e sofisticato. La violenza è venuta più tardi, quando il grande pubblico si è impaurito e ha cominciato ad attaccare i punk che rappresentavano la degenerazione.

C'era rivalità con Londra?

Mai. Quando McLaren ha organizzato il suo festival "Scream on the green" - il primo concerto dei Clash - ci ha invitati. Un mese dopo ci ha chiamati al 100 Club - siamo stati l'ultimo gruppo punk a suonarci. In seguito abbiamo partecipato all'Anarchy Tour con i Clash e i Pistols, al posto dei Damned. Era eccitante andare a Londra, incontrare gente nuova come Siouxsie Sioux. Avevamo la sensazione di essere nell'occhio del ciclone, di partecipare ad un movimento importante. Bastava muovere il mignolo per scatenare la tempesta. Nessuno aveva osato fino a quel punto: si pensava che fosse vietato dalla legge di suonare così veloce e così male. Noi abbiamo fatto scoprire che tutto era permesso: un invito all'anarchia, all'azione. Adoravamo manipolare la stampa, la gente. Era l'idea principale del punk: un gioco di ruolo. Un po' come quelli che hanno iniziato a gettarsi dai ponti con un elastico attaccato al piede. All'inizio sono stati presi per pazzi ma a poco a poco la gente ha capito che non era solo un idiota gusto del rischio. Certi hanno visto il lato creativo dei punk, che inventavano uno stile, una musica.

Come hai capito che il movimento punk stava alla fine?

È durato fino al '77, poi è stato diverso. I gruppi hanno cominciato a firmare con delle multinazionali, a rientrare nei ranghi. È per questo che abbiamo fatto il nostro primo singolo, Spiral Scratch, da soli. Nessuno ci aveva ancora provato, tutti pensavano che solo le major avessero il diritto di far uscire i dischi. Ma ci si è resi conto subito che era facile. Tutti ci trattavano da folli, dicevano che saremmo rimasti con tutti i dischi sul groppone. Abbiamo fatto una colletta fra i nostri amici e i nostri genitori, abbiamo affittato uno studio per una giornata, registrato quattro pezzi. Abbiamo disegnato la copertina e stampato il disco in mille copie. Il giorno in cui è uscito ho comprato due bottiglie di vino per celebrare quel momento storico, pregando che ne vendesse almeno la metà. Nel giro di una settimana le mille copie erano state vendute.

Per il vostro primo album Another Music In A Different Kitchen (1978) avete firmato con una major. La leggenda vuole che Devoto abbia abbandonato il gruppo perché considerava questo gesto come una sottomissione.

Abbiamo scelto quell'etichetta perché conoscevamo Andrew Lauder, che aveva sotto contratto Hawkwind, Can, Neu e, in seguito, Stone Roses... Quando ha firmato con noi, non ci ha detto "dovete cambiare questo o quello". Non è per questo che Devoto se n'è andato nel '77. È stato per continuare i suoi studi che aveva abbandonato da tre anni. Non aveva voglia di rovinare tutto a tre mesi dagli esami finali per i Buzzcocks. Ha scelto lo studio, si è laureato e poi ha formato i Magazine. Ma siamo ancora amici.

Eri felice di essere diventato il solo leader del gruppo?

Non ho mai fatto schioccare la frusta per avere il gruppo in mano. Tutte le idee erano buone, le mie come quelle degli altri. Mi piaceva stare sotto i riflettori. Mi sembrava di essere il direttore d'orchestra e in più scrivevo le parole che erano la cosa che contava di più per me. Riuscivo ad esprimermi nei testi con più precisione e onestà che nella vita di tutti i giorni. Ripetere una frase dieci volte di seguito può dare un peso impensato a delle parole semplici. Tutti i messaggi che dovevo mandare alla gente li nascondevo dietro le canzoni. La persona a cui si riferiva il messaggio capiva ed io mi sentivo bene. Era il solo modo di esprimere la collera, il rancore perché ero incapace di dire alle persone cosa pensavo veramente.

Un altro tratto affascinante dei tuoi testi era quel modo di scrivere indifferentemente nei panni di un uomo e di una donna.

Morrissey ha trovato questo affascinante, ci ha costruito sopra tutta la sua carriera. Se scrivevo in quel modo, è perché la mia sessualità era piuttosto ambigua. Siccome sono bisessuale posso scrivere da un punto di vista femminile o maschile, so cosa gli uni e le altre provano. Le mie canzoni potevano quindi riguardare tutti, mi serviva una grande disciplina per gestire questo stile asessuato. Nessuno all'epoca scriveva di cose così personali. Passavo la mia vita a innamorarmi di persone sbagliate - a 40 anni non sono ancora cambiato.

Le tue canzoni sono diventate mano a mano più oscure e turbate; stavi perdendo terreno?

Registravamo e andavamo in tour troppo. Questo ha accelerato il processo di distruzione che, comunque, era inevitabile. Non ero fatto per essere felice. Non avevo più un secondo per me e, quando potevo scappare, non riuscivo a distendermi. Le mie depressioni cominciavano a diventare un problema per il gruppo. Sempre di più mi rifiutavo di stare al gioco, di accettare il compromesso. Ero intrattabile, sconvolto. Ho cercato di farla finita prendendo un intero tubetto di barbiturici, ma la mattina dopo mi sono svegliato che ero un fiore (ride). Allora ho capito che era meglio essere un uomo sofferente che un rimbambito col sorriso stampato. Verso il '79-'80 prendevo continuamente acidi, credevo che fosse utile per farsi delle autoanalisi a colori, incontravo Dio, capivo il senso della vita e della morte (ride). In studio mi nascondevo sotto il tavolo di missaggio e ne uscivo fuori solo quando dovevo cantare, quando i miei incubi mi abbandonavano. Nell'ultima tournée con i Joy Division le mie notti erano insopportabili. Non credevo in niente, figuriamoci nei Buzzcocks. Avevo dipinto un pavimento dimenticando di lasciare lo spazio per uscire: mi trovavo nel fondo della stanza all'angolo senza saper più cosa fare. È per questo che ho lasciato il gruppo e iniziato una carriera solista con Homosapien (1982).

Come ti sentivi dopo la separazione?

Era come la fine di un rapporto d'amore. Avevo fatto di tutto per continuare ad amarci, ma la coppia non si è comportata come avevo immaginato. Litigavamo, non ci amavamo più: perché restare insieme? Ero triste ma, soprattutto, sollevato. Perché avevo trovato una nuova storia d'amore, passionale, con il mio primo album solista. Il gruppo non aveva detto tutto, aveva ancora delle potenzialità, ma i problemi umani, finanziari, i rapporti con la casa discografica, con il management diventavano troppo pesanti. Per anni avevamo registrato in continuazione, facendo uscire i dischi ogni sette otto mesi. Eravamo ad un punto morto per delle questioni amministrative. La casa discografica ci lasciava marcire ed io ero sconvolto che ci potesse trattare con tale leggerezza. Il male era fatto: erano riusciti ad abbassare il morale delle truppe. Non avevo scelta: dovevo uccidere il gruppo. Non potevo lasciare che si dissolvesse.

Dalla vostra separazione molti gruppi hanno rivendicato la vostra influenza. Era frustrante o al contrario ti dava conforto?

Quanche anno dopo la separazione il New Musical Express pubblicò un articolo retrospettivo sui Buzzcocks. Avevo l'impressione di leggere un'orazione funebre. Ho dovuto smettere di respirare per rendermi conto che ero ancora vivo. Noi non avevamo idea di fare una musica così importante. Ma presto mi sono accorto della nostra influenza sugli altri. Non si dirà mai abbastanza su quanto hanno preso gli Smiths da noi. Ma la riabilitazione sta andando avanti: con Elastica e compagnia viene ammessa la nostra importanza.
Ci siamo accontentati di passare la staffetta: l'abbiamo ricevuta da Bowie, dai Velvet, da Bryan Ferry e l'abbiamo passata a Morrissey o Supergrass... Lou Reed ha molte più ragioni di noi di essere furioso della sua discendenza. Che dei crimini commessi in suo nome.

di J.D. Beauvallet - Traduzione di Bianca Spezzano

venerdì 17 giugno 2011

INTERVISTA CON JOY RECORDS


Joy Records a Vicenza è dove vado a prendermi i cd e i dischi.
Sono da Cittadella, eppure dopo averlo scoperto durante gli anni delle superiori ci torno sempre molto volentieri.
Stefano ha sempre soddisfatto ogni mia richiesta dal punto di vista musicale,e risponde perfettamente ai requisiti che secondo me dovrebbe avere un negozio di dischi.
E'un negozio di settore, appassionato, alternativo e indipendente nel senso esteso del termine.
Son partito prendendomi diversi dischi della Lookout!, roba mitica che non trovavi da nessun'altra parte, magari arrotondando con una spilletta dei Buzzcocks e un vecchio numero di qualche fanzine.
Ora, come prima, continuo ad ordinarmi la mia roba abbastanza regolarmente e mi va benissimo così!


- Quando nacque in te l'idea di aprire un negozio di dischi?
La musica è una mia passione fin da piccolo. Considera che a quel tempo le informazioni erano pochissime: io abitavo in un paesino vicino a Belluno, tutto girava per una sorta di passaparola, le riviste del settore erano 2 (mi pare dal 1979 Rockerilla e Il Mucchio); libri di musica praticamente nulla; naturalmente nessun computer ed internet: sembra superfluo ricordarlo, ma oggi ci sembra scontata la loro esistenza. In quegli anni andavano per la maggiore i cantautori (già in fase calante quanto a contenuti; il meglio lo avevano dato verso la metà degli anni 70, poi molti sono divenuti commerciali o fenomeni da baraccone) e la disco music; quindi i nuovi fermenti musicali arrivavano con difficoltà in Italia. Nonostante ciò, anche grazie ad amici più grandi ho cominciato ad ascoltare musica alternativa più o meno dal 1978. Durante gli anni di Università a Padova, oltre che cliente di negozi di dischi ho anche lavorato saltuariamente in uno di essi. Così ho deciso di provare ad aprire un negozio specializzato in musica “alternativa”.

- Gli anni '90 sono stati un decennio importante per la musica cosidetta alternativa, con l'emersione di buone band, scene musicali e, immagino, interesse da parte dei giovani.
Confermi quanto dico? Come sono stati gli inizi per la tua attività?

Gli anni 90 sono stati molto fecondi per la musica e con il madchester et similia prima (Happy Mondays, Stone Roses, Blur, Primal Scream)e soprattutto con il grunge appena dopo, la musica rock si è aperta maggiormente al mercato con intrecci anche con la moda giovanile. Le majors hanno compreso la portata del fenomeno e quindi alimentato il mercato; anche grazie ad MTV molti gruppi che prima sarebbero rimasti sconosciuti sono arrivati al grande pubblico.
Anche l'elettronica ha avuto sviluppi interessantissimi, con l'etichetta Warp di Sheffield (Aphex Twin, Autechre), con il brakbeat dei Prodigy, con la techno degli Underworld o degli Orbital e naturalmente con il fenomeno drum'n'bass. Poi con il rock di rage Against The Machine e i primi Korn. Molto frizzante anche il settore punk HC, soprattutto a Vicenza, con gli appassionati del settore filo-Fugazi, di quello HC old school di Gorilla Biscuits, Youth Of Today, qdi uello melodico con NoFx, Lag Wagon, Millencolin e affini, e di quello punk con Screehing Weasel, Queers e naturalmente i nostrani Derozer.

- La crisi dell'industria discografica, con l'esplosione della musica pirata, come si ripercuote su di un negozio del settore come Joy Records?
La crisi è evidente ornai da anni e si ripercuote su tutto il mercato discografico: molte etichette e molti negozi hanno chiuso. Gli mp3 e i film scaricati gratuitamente sono chiaramente una manna per molti, ma cià danneggia irrimediabilmente le vendite e anche l'attività dei gruppi.

- Ho frequentato le superiori a Vicenza.
Da come la vedevo mi sembrava una cittadina molto attiva sul piano culturale/musicale, bands, negozi di dischi, locali, ragazzi che seguivano e partecipavano (anche se magari solo superficialmente, mettendosi due spillette di gruppi punk, ma comunque potenzialmente facenti parte di un, passami il termine, "mondo alternativo").
Tu come la vedi la tua città? Risponde bene?
Ancora oggi in centro vedo appunto tantissimi ragazzini che abbracciano stili visivi e di presentazione cosiddetti "alternativi".
Sono ragazzini che poi effettivamente approfondiscono la vicenda, si comprano dischi, vanno alle serate, insomma sono realmente appassionati oppure, dal tuo punto di vista privilegiato sulla questione(dato che comunque gestisci un negozio di settore) si tratta solo di moda superficiale e poco interessata ad approfondire, a supportare?

Vicenza è sempre stata abbastanza vivace per quanto riguarda i gruppi musicali e quindi i fruitori di musica, ma è sempre stata altrettanto carente per ciò che riguarda i locali in cui suonare. Alla metà degli anni 90 era attivo il centro sociale Ya Basta che proponeva molta musica e quasi di fronte un bar proponeva musica dal vivo anche con l'organizzazione di veri e propri contest, molto seguiti ed interessanti.

- Com'è la tua giornata lavorativa tipo?
Gestire un negozio è da un certo punto di vista monotono, visto che si hanno orari fissi e alla lunga diventa logorante. Naturalmente ogni giorno bisogna far fronte a problemi sempre nuovi quindi non ci si deve addormentare. Come sai Joy Records non vende solo dischi, ma fin dalla sua apertura ho cercato di offrire anche materiale di contorno o comunque affine, come posters, piercing, magliette di gruppi, spillette e, soprattutto negli ultimi anni anche abbigliamento di vario tipo.

- Qual è l'eta media dei tuoi clienti?
Si va dai 15 ai 45, più o meno: una media forse sui 20 anni.

- Top five dei tuoi album preferiti
Dovrei fare una top fifty, a dire la verità (e già sarebbe scarsa); ma se devo rimanere ai 5, direi: The Specials “the Specials”, Pink Floyd “The piper at the gates of dawn”, Beatles “Sgt Peppers”, Jesus And Mary Chain “psychocandy”, Joy Division “unknown pleasures”.

- Top five dei migliori concerti visti.
Echo & The Bunnymen 1987, Loop 1989, Fugazi 1990, Smashing Pumpkins 1993, Test Department 1989

- Top five film preferiti.
Trainspotting, Blues Brothers, Fargo, La grande abbuffata, Pulp fiction

- E' mai entrato qualcuno che ti ha chiesto un cd di Ramazzotti o cose del genere?
Naturalmente sì e se un tempo dicev o direttamente “non tengo musica italiana”, ora non mi posso permettere di negare niente a nessuno e quindi se mi chiedono Ramazzotti, naturalmente non ce l'ho ma lo ordino, taccio e ringrazio.
Sic Transit Gloria Mundi.